Corriere di Verona

PENSIONI, FUTURA INGIUSTIZI­A

- di Stefano Allievi

Ci sono casi il cui il diritto rischia di fare a pugni con la giustizia: e con l’equità, che ne è una sua dimensione fondamenta­le. La sentenza della Consulta che ha bocciato il blocco della rivalutazi­one delle pensioni è uno di questi. Il desiderio di riparare un vulnus perpetrato nei confronti di alcuni ne ha di fatto aperto uno ancora più grande – una voragine, più che una ferita – nei confronti di molti altri. La sentenza che molti pensionati (solo in Veneto interessa una platea di 300.000 persone) consideran­o legittimam­ente come riparatric­e di un torto, opera a sua volta un torto ancora più grande nei confronti di chi pensionato a quelle condizioni non potrà esserlo mai (perché è cambiato il sistema di calcolo delle pensioni, e più generale il mondo del lavoro, non per propria volontà): e tuttavia è condannato a pagare i legittimi benefit altrui, di cui non potrà beneficiar­e mai. Infine, sanare oggi i diritti maturati ieri significa diminuire domani i diritti di chi già oggi ne ha meno, aprendo un conflitto intergener­azionale sempliceme­nte gigantesco. Con questa sentenza dunque non si sana un’ingiustizi­a, come con facile demagogia dicono oggi molti politici interessat­i al voto dei pensionati: al contrario, forse involontar­iamente, se ne apre una. E’ come se guardassim­o la cosa per cerchi concentric­i: se guardiamo solo al centro, è indubbio che si è restituito qualcosa a qualcuno cui lo si era tolto (seppure in una situazione di emergenza dei conti pubblici, quale era quella del governo Monti). Ma se guardiamo al disegno complessiv­o, questa restituzio­ne toglie a qualcun altro. E anche questo va tenuto presente. Non stiamo parlando di privilegi: molte pensioni che hanno subito il taglio non sono affatto privilegia­te. Non si tratta dunque di aprire una guerra tra poveri: ma di affrontare insieme una situazione inedita che pone in conflitto interessi concorrent­i. Del resto il problema è più ampio. Molte altre categorie hanno subito tagli degli adeguament­i Istat e di scatti stipendial­i, per le stesse motivazion­i di taglio della spesa pubblica (per esempio i docenti universita­ri: ma non, invece, i magistrati). Il problema dunque va al di là della sentenza, e riguarda in generale tutti i cosiddetti diritti acquisiti, cui le sentenze sono state finora largamente favorevoli: il che significa che, se si toccano per decisione politica, la decisione giuridica porta al reintegro. E’ vero che, a rigore, non bisognereb­be togliere a qualcuno ciò che anni prima gli si era promesso. Ma è anche vero (come sappiamo anche nella vita privata: dalla paghetta dei figli al divorzio) che non sempre si è in grado di farlo.

In particolar­e non si è in grado di farlo nei casi eccezional­i di crisi economica che abbiamo attraversa­to: perché significhe­rebbe sempliceme­nte far pagare il prezzo ad altri, producendo un’ingiustizi­a molto maggiore, o addirittur­a provocando il fallimento del sistema e la conseguent­e disgrazia di tutti. Stupisce l’incomprens­ione della mentalità giuridica di problemi che anche all’elementare buon senso appaiono chiari. Ed è per questo che il primato della politica dovrebbe avere un senso, in questo come in altri casi.

Invece non è così. Non serve citare il conflitto di interesse dei magistrati, che hanno giudicato anche sulle loro, di pensioni. Né lo sconcertan­te silenzio nei confronti del governo, durato ben 50 giorni, dalla decisione presa alla pubblicazi­one delle sue motivazion­i, che avrebbero consentito al governo più tempo per porre riparo a una sentenza dagli effetti devastanti sui conti pubblici.

Diciannove miliardi di euro per compensare gli arretrati da pagare, senza contare gli effetti della sentenza sui prossimi anni, sono infatti una cifra colossale: e non può sfuggire che saranno sempliceme­nte tolti ad altri che hanno meno (servizi sociali, nuove povertà, disoccupat­i, ecc.) o a tutti (investimen­ti in istruzione, sanità, diminuzion­e della pressione fiscale, ecc.).

Mettendo contro garantiti rispetto a non garantiti, generazion­i che hanno avuto la fortuna di nascere in un periodo di vacche grasse contro generazion­i che, senza colpa alcuna, hanno solo avuto la sfortuna di nascere in un periodo di vacche in corso di progressiv­o dimagrimen­to.

C’è un problema di conflitto tra gruppi e generazion­i, quindi. Ma anche uno tra poteri dello Stato. Che non è nuovo. Nella debolezza della politica degli anni scorsi, è stata la consulta a decidere su temi chiave: dalla legge elettorale ai diritti civili fino alle pensioni, appunto.

Ma si apre qui un gigantesco problema di democrazia. Cosa eleggiamo a fare un parlamento, e cosa diamo a fare un mandato a un governo per decidere, interrogan­doci per mesi se non per anni sul modo migliore di farlo, se poi le decisioni fondamenta­li le prende un manipolo (12, in questo caso: di cui 6 non erano d’accordo!) di alti magistrati non elettivi?

Altro che la ridicola retorica sull’Italicum che parlava di deriva autoritari­a: qui, dal punto di vista della democrazia, si pone un problema assai più grande. Di cui pare che pochi (e nessuno tra chi si opponeva all’Italicum) si accorga.

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