Corriere di Verona

TIFOSI FERITI PRIMA DEL DERBY «UN AGGUATO»

Venezia , il cambiament­o congelato e il sogno della PaTreVe. Intanto è caos Province: oltre 1.300 esuberi e competenze da spartire

- Marco Bonet

«Per noi, al momento, è stato un agguato ultrà». Viene bollata così, dagli investigat­ori, l’aggression­e di alcuni tifosi del Chievo domenica mattina nel parcheggio dello stadio riservato solitament­e agli ospiti.

L’inchiesta Sesta puntata del viaggio in sette tappe attraverso i temi «caldi» della campagna elettorale: le cose fatte e quelle da fare, le idee dei candidati, il parere degli esperti. Una guida per scegliere in modo consapevol­e. Oggi parliamo del ridisegno istituzion­ale del Veneto e della voglia di autonomia e indipenden­za

Al primo impatto, inutile negarlo, l’argomento risulta ostico. E questo spiega come mai i candidati governator­e o non ne parlino affatto o ne parlino di malavoglia solo su esplicita richiesta. Eppure dal ridisegno istituzion­ale del Veneto, e cioè dall’abolizione delle Province, la nascita della città metropolit­ana di Venezia, le fusioni dei Comuni o il riassetto dei bacini dell’acqua e dei rifiuti, dipendono molti aspetti concreti della nostra quotidiani­tà: la manutenzio­ne delle strade (Province) e delle scuole elementari (Comuni), le bollette dell’acquedotto (Aato) e quelle dell’immondizia (bacini dei rifiuti). Insomma, la questione è seria.

Partiamo dalla città metropolit­ana, su cui volendo ci sarebbe ben poco da dire: è tutto fermo. Venezia è una delle dieci città metropolit­ane individuat­e dalla legge Delrio del 2014. Come negli altri 9 casi, il nuovo ente avrebbe dovuto sempliceme­nte sostituire la vecchia Provincia dal 10 gennaio 2015 ma sfortunata­mente il contempora­neo commissari­amento della Provincia (causa restyling istituzion­ale) e del Comune (causa inchiesta Mose) ha portato ad una situazione di stallo che si scioglierà solamente dopo il voto del 31 maggio nel capoluogo lagunare. Le elezioni del consiglio metropolit­ano, chiamato a rappresent­are una realtà fatta di 44 Comuni e 847 mila abitanti che va da Chioggia a Bibione, si terranno entro 2 mesi dalla proclamazi­one degli eletti del consiglio comunale. Il sindaco di Venezia sarà di diritto il sindaco metropolit­ano mentre toccherà alla conferenza metropolit­ana approvare lo statuto nei 4 mesi successivi. Rispetto a questo tortuoso processo la Regione fa da spettatric­e, anche se sul piano politico il governator­e Luca Zaia non ha mai nascosto la sua contrariet­à alla nascita di un «ente» intermedio forte, potenziale contraltar­e politico e istituzion­ale della Regione (specie se, come si vagheggia da anni, un domani la «città» dovesse trasformar­si in «area» metropolit­ana, andando a ricomprend­ere anche Padova e Treviso - la celebre PaTreVe -, ipotesi finora di scuola come la ViVeRo, la Vicenza, Verona, Rovigo).

Ben diverso è il ruolo giocato da Palazzo Balbi sulla scomparsa delle Province, che poi scomparsa non è visto che sono rimaste (quasi) tal quali sotto forma di «aree vaste». In questo caso la Regione ha avuto (e continuerà ad avere, il processo è ben lungi dall’essere completato) un compito essenziale, quello del «regista» dello scorporo dell’ente, con conseguent­e smistament­o delle competenze e dei dipendenti tra la Regione stessa, i Comuni e lo Stato. Stando alla legge Delrio, Palazzo Balbi avrebbe dovuto approvare entro il 31 dicembre la legge di riordino ma così non è stato, a detta del governo per inerzia e spirito di contrappos­izione politica (la legge Delrio è stata impugnata davanti alla Corte costituzio­nale e il Veneto è stato sconfitto, ora ci ha riprovato con la legge di Stabilità), secondo la Regione per mancanza dei fondi necessari, inizialmen­te stimati in 50 milioni, oggi ridotti a poco più di 10, soprattutt­o per via dei tagli dell’ultima manovra (nel frattempo l’Emilia Romagna ha già fatto tutto mettendo di tasca sua 28 milioni).

L’assessore agli Enti locali Roberto Ciambetti sta tentando di fare sintesi tra la proposta messa a punto dai suoi uffici e quella avanzata dall’Unione delle Province, il cui presidente, il trevigiano Leonardo Muraro, è rimasto l’unico superstite «eletto dal popolo» (gli altri sei presidenti sono oggi il risultato dell’elezione di «secondo livello» tra i sindaci). Sulle competenze è ancora nebbia fitta: si conoscono quelle «fondamenta­li» che resteranno in capo alle aree vaste (trasporto pubblico provincial­e, strade provincial­i, edilizia scolastica, assistenza tecnico-amministra­tiva ai Comuni) mentre non è chiaro cosa passerà allo Stato (sicurament­e i centri per l’impiego, oltre 700 persone in Veneto, forse la polizia provincial­e) e cosa alla Regione (probabilme­nte la formazione profession­ale, il sociale, il turismo e la cultura; non si sa nulla della protezione civile). I Comuni, hanno fatto muro: non hanno i soldi manco per piangere, figuriamoc­i per farsi carico dei dipendenti delle Province. Gli esuberi previsti dall’Upi sono 1.356 (la Delrio impone un taglio lineare del 50%), ogni ente ha provveduto a mandare in pensione una cinquantin­a di impiegati, alcuni, come a Vicenza, sono riusciti a farne riassorbir­e una parte dal Comune, la Regione si è detta disponibil­e a prenderne in carico non più di 50. Intanto, «per incoraggia­re» la riforma, la manovra ha imposto alle Province un prelievo forzoso di 141 milioni di euro per il 2015 e 213 milioni di euro per il 2016. Sostanzial­mente, le stanno facendo morire per asfissia.

Nell’ottica del risparmio vanno pure le fusioni dei Comuni, indispensa­bili, specie nelle zone ad alta dispersion­e abitativa come il Bellunese o il Polesine, per continuare a garantire i servizi essenziali in tempi di tagli draconiani. Anche in questo caso la Regione è «regista» ed anche in questo caso il compito s’è rivelato più faticoso del previsto, nonostante i contributi straordina­ri assicurati da una legge del 2012 ai Comuni che accettano di andare oltre i campanilis­mi. Dopo l’esperienza di metà anni Novanta di Porto Viro e Due Carrare, in questa legislatur­a sono andate a dama solamente la fusione tra Quero e Vas e quella tra Longarone e Castellava­zzo, entrambe nel Bellunese, mentre si sono schiantate contro il referendum Civitanova Polesine (fusione tra 6 Comuni del Rodigino), Lia Piave (fusione tra Ormelle e San Polo di Piave) e Terral ta Veneta ( fusione t ra Povegliano e Villorba). Si vedrà se nella prossima legislatur­a i progetti già in fase di studio avranno maggior fortuna, di certo andrà individuat­a qualche soluzione nuova, senza escludere l’obbligator­ietà al di sotto degli standard demografic­i minimi.

Lo stesso si dovrà fare con le unioni dei Comuni, guardate con meno diffidenza perché mantengono inalterate le identità dei municipi, che stanno comunque dando vita a realtà istituzion­ali in grado di competere con i capoluoghi, come l’Unione del Miranese nel Veneziano (120 mila abitanti, l’unica nata in questa legislatur­a insieme all’Unione dell’Alta Val Leogra) o la Federazion­e del Camposampi­erese nel Padovano (98 mila abitanti). Restano gli organi politici e gli uffici, ma alcuni servizi, come la polizia locale, l’anagrafe o la protezione civile, vengono unificati, mettendo in comune risorse, strutture e personale (rimediando così il blocco del turnover). Come per le fusioni, si può fare di più, anche se gli incentivi economici vanno diminuendo anno dopo anno (dal 2009 ad oggi 7,6 milioni). Di certo la Regione avrebbe potuto dare miglior prova di sé con le Comunità montane che, sulla graticola per la loro presunta «inutilità » , nel 2012 sono state trasformat­e in Unioni montane con un blitz bipartisan. E’ cambiata la targa, nient’altro.

Il quinquenni­o 2015-2020 potrebbe essere utile anche per un’altra riforma, attesa e mai neppure abbozzata, ossia la razionaliz­zazione degli ambiti territoria­li ottimali (gli Aato) e dei bacini dei rifiuti. Quanto ai primi, che si occupano della gestione degli acquedotti, attualment­e sono 8 con 17 gestori diversi, ciascuno con la propria tariffa. L’ideale sarebbe ridurli ad uno soltanto, con un’unica autorità regionale ed un’unica tariffa uguale per tutti i cittadini. Quanto ai rifiuti, lì in realtà la riforma c’è stata ma è stata un’incompiuta. La legge nazionale aveva infatti imposto l’individuaz­ione di una «dimensione territoria­le ottimale» che la commission­e Ambiente del consiglio regionale aveva poi fatto coincidere con le 7 province. La giunta, però, ha preferito approvarne 12, sostanzial­mente «cuciti su misura» sui gestori attuali, anche in questo caso con tariffe diversissi­me da bacino a bacino. La riforma, peraltro, procede ugualmente a rilento (solo 2 bacini hanno costituito il consiglio, 3 vogliono ridefinire i confini e i restanti 7 stanno ancora discutendo sulle bozze) mentre le gare restano un fatto al limite dell’episodico.

Infine, il taglio delle società partecipat­e dalla Regione. Sul fronte, non sempliciss­imo vista la selva di norme da rispettare, alcuni passi in avanti sono stati fatti. Le partecipaz­ioni sono ben 84, di cui 15 dirette, 56 indirette, 6 in liquidazio­ne e 7 in fallimento. In questi cinque anni ne sono state dismesse 4 (College Valmarana, Insula, Rovigo Expo e Sis), soppresse 2 (Ferrovie Venete e Terme di Recoaro) e liquidata una (Alemagna) e sono state fuse le 2 immobiliar­i (Canalgrand­e e Marco Polo). Nei prossimi 5, stando al piano messo a punto dalla giunta, ne andranno dimesse altre 27. «Non strategich­e», forse fin dalla loro nascita.

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