Contratto part time ma 14 ore di turno effettivo «E se ti fermavi un attimo partiva il rimprovero»
Il racconto dei dipendenti: «Sotto ricatto di licenziamento». La doppia contabilità per le frodi
Quegli esposti, arrivati anche in procura, descrivevano una sorta di «catena di montaggio». Dove l’ingranaggio era quella «forza lavoro» che veniva spremuta e usata senza remore. «Ti vedevano appoggiata al tavolino per un attimo, mentre aspettavi che ti riempissero il vassoio e ti dicevano: “bella vita....”». Come se fossero dei
fancazzisti, quelli che si macinavano anche quattordici ore al giorno tra friggitrici bollenti e tavoli strapieni. «Alla fine quel tavolino a cui ci appoggiavamo aspettando i vassoi lo hanno tolto...», racconta una ex dipendente.
Quando sono arrivati all’Ippopotamo, la prima volta nel giugno del 2013, i tre carabinieri del nucleo Ispettorato del Lavoro di Verona, hanno capito che non era aria. Che i dipendenti lì non parlavano. Si guardavano attorno, mugugnavano. Ma non dicevano nulla. «A quel punto - hanno spiegato - abbiamo deciso di non sentirli in sede, ma nei nostri uffici». È così che l’indagine sull’Ippopotamo dal menù con 26 piatti, 24 tipi di pizza, 5 dessert e una miscellanea di improbabili accostamenti tra il fast-food e la cucina del territorio, con fuochi accesi «ininterrottamente dal mattino presto fino a tarda notte» e spazi per «feste di compleanno, di laurea, pranzi o cene di lavoro», hanno preso il volo. Una volta lontano dai due piani tutti tavoli, tovaglie a quadretti e maxi schermi del Liston, quei dipendenti hanno iniziato a parlare. Hanno raccontato di contratti part-time da 300 euro al mese e 14 ore lavorative. Quelle che in realtà macinavano in un turno. Che si replicava anche per un mese, senza alcun riposo. Alcuni di loro venivano assunti tramite una società di lavoro interinale. Il 60 per cento dei dipendenti dell’Ippopotamo è risultato essere in «regime di somministrazione», vale a dire non assunto direttamente. Espediente che permetteva di evitare diversi «cavilli» fiscali. Con il titolare a decidere chi assumere e chi no e che usava il sistema più vecchio del mondo per mettere tutto a tacere: «Se non ti va, sei licenziato. E anche se parli o denunci sei licenziato». Violenze verbali e minacce. Li pagava in nero, per le altre ore che facevano. Il denaro contante lo metteva in buste con il loro nome. L’equivalente di 6 o 7 euro all’ora senza contributi. Paghe da sfruttamento. Ma sempre paghe, per chi non ha altri orizzonti. Lui, Roberto Zanini, un altro orizzonte lo aveva. Un orizzonte telematico. Quello del sistema che si era fatto progettare per «gestire» il tutto. Sia gli orari e le paghe dei lavoratori, sia la doppia contabilità della sua azienda. Viaggiavano su due «binari», i suoi computer. Uno ufficiale che a un controllo sommario presentava una contabilità da cherubino. L’altro che raccontava tutta un’altra storia. Aveva creato una «sala» apposita sopra al ristorante, Roberto Zanini. Dentro gli investigatori hanno trovato delle persone che gestivano il sistema e archiviavano i dati. Su quei computer ci hanno lavorato per due anni, i carabinieri e i tecnici dell’Agenzia delle Entrate. «Pensava fosse un sistema inviolabile». Il suo arresto, l’altra sera, ha dimostrato che non era così.