Corriere di Verona

VITA E RISPETTO, PIAZZE AL BIVIO

- Di Stefano Allievi

Puntuali come le influenze, con la bella stagione riemergono le polemiche sul centro storico e il suo utilizzo.

A Padova, con qualche specificit­à in più, sia fattuale che politica, che vale la pena esaminare. La diatriba è nota: i locali aumentano, i visitatori affollano il centro, i residenti si lamentano, la politica interviene, o non lo fa… Il copione è sempre il medesimo, gli attori i soliti: la trama comincia con studenti, giovani, turisti e cittadini che affollano il centro…

Padova è una bella città, quindi anche turistica: e i turisti vogliono vedere i monumenti, ma anche godersi la città di sera, con buoni e diffusi spettacoli (ancora troppo pochi), buon cibo e occasioni di incontro. In più è un enorme polo universita­rio, con oltre sessantami­la studenti e cinquemila docenti, in parte significat­iva provenient­i da altrove. La città, su questa presenza, cresce e incassa: la gente che ci viene dorme, mangia, consuma. Senza l’università Padova non perderebbe solo molto del suo prestigio, ma una delle sue principali aziende (insieme all’ospedale), e anche un incubatore e mobilitato­re di produzioni e consumi culturali, che ne costituisc­ono in buona parte l’anima. La città dei residenti, dei proprietar­i e degli esercenti diurni (che hanno interessi diversi dagli esercenti di locali aperti la sera) li vorrebbe solo consumator­i silenziosi (e in buona parte polli da scorticare, basti pensare al mercato degli affitti), o consumator­i di fascia alta, nel chiuso di costosi locali privati. Loro vogliono invece godersi la città in cui temporanea­mente o permanente­mente vivono, e le sue pubbliche piazze (che sono belle, e nascono come luoghi di socializza­zione, per essere godute e trafficate), e che costano meno dei locali. E’ quella che stampa e politica, con buona dose di provincial­ismo, chiamano ‘ movida’. Almeno, lo fosse... Una movida presuppone un’offerta dinamica e diffusa di continue attività culturali, non solo di luoghi in cui mangiare e bere. Ci sono poi i proprietar­i dei locali aperti la sera. Che diventano tali perché altri esercizi chiudono. Qui una riflession­e andrebbe fatta. I negozi chiudono solo per la crisi? O è anche per una generalizz­ata mancanza di attrattiva e di innovazion­e (dunque di cultura e di cultura d’impresa)? Perché si vendono sempre le stesse cose, nello stesso modo, con gli stessi assurdi orari inclusivi di tre ore di pausa pranzo (una pratica insensata e in via di sparizione nelle città aperte e turistiche)?

Naturalmen­te il vuoto viene riempito, ed è un bene: se così non fosse, le piazze avrebbero vieppiù l’aspetto spettrale delle saracinesc­he chiuse, della mancanza di vita, del desiderio di essere altrove – tutto il contrario di una città turistica e attrattiva. In più ci si mette la politica, il governo locale. Benissimo che il sindaco Bitonci abbia abolito l’insensato e regressivo coprifuoco della mezzanotte, in un interessan­te rovesciame­nto di ruoli per cui la destra fa politiche aperturist­e mentre la sinistra faceva quelle conservatr­ici: da qui a rilasciare licenze a raffica solo a locali che richiamano ulteriore pubblico, senza alcuna riflession­e e gestione e analisi delle conseguenz­e, e comminando ai gestori ammende in misura risibile, certamente inferiori per numero e importo a quelle che con grande impegno si comminano ai mendicanti, ce ne passa. Ovvio che poi i residenti protestano. Va detto tuttavia che le città sono un organismo complesso, in profonda e rapida trasformaz­ione, caratteriz­zate da processi di mobilità (anche delle sue popolazion­i) sempre più rapide. Hanno bisogno di spazi e polmoni di socialità tanto quanto hanno bisogno di spazi e polmoni verdi: senza di essi, sempliceme­nte, invecchian­o, si ammalano e muoiono. E questi spazi non sono decentrabi­li a piacere: si creano naturalmen­te, con logiche proprie, legate ai costi, all’attrattiva, ai vantaggi e svantaggi dei rispettivi quartieri, e non prevedono dunque gli stessi inquilini per sempre. Non si può immaginare uno schema rigido, ad uso e consumo dei proprietar­i. E’ un problema serio, anche politico: molti dei nuovi residenti (siano essi studenti, immigrati o lavoratori che non si trasferira­nno – sempre di più) producono reddito ma non votano, e talvolta viceversa. Sono trasformaz­ioni che andrebbero accompagna­te, discutendo, coinvolgen­do tutti gli attori, ma anche immaginand­o e proponendo scenari evolutivi. Quello che dovrebbe fare una politica capace di programmar­e e innovare. In assenza della quale i processi sono lasciati al caso, e alle logiche, non casuali, del mercato.

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