«GIACINO USAVA I SUOI POTERI PER FARSI PAGARE»
«Giacino, strumentalizzando la sua funzione pubblica, ha svolto una costante pressione sul Leardini, fatta di imposizioni o di blandizie, per costringerlo a pagare»: è uno dei passaggi della relazione del giudice per l’Appello di giovedì.
«In qualità di assessore del Comune di Verona,aveva abusato della propria posizione, da intendersi come esercizio di poteri autoritativi che possono non esplicitarsi anche in atti amministrativi, dal momento che “ben può esservi abuso penalmente rilevante anche a fronte dell’emanazione di atti amministrativi perfettamente legittimi, laddove per l’emissione degli stessi il pubblico ufficiale costringa o induca taluno a promesse o dazioni indebite». È in base a tale principio che - si legge nelle 38 pagine in cui il giudice relatore inquadra il processo d’Appello a Vito Giacino e alla moglie Alessandra Lodi previsto per dopodomani in camera di consiglio a Venezia - l’ex vicesindaco si sarebbe reso responsabile del reato di «concussione per induzione indebita» (sanzionato dall’articolo 319 quater del codice penale) anziché di corruzione. Cinque gli anni di reclusione inflitti a Giacino in primo grado, quattro quelli a cui è stata condannata la Lodi (difesi dagli avvocati Filippo Vicentini e Apollinare Nicodemo) che hanno impugnato la sentenza del dicembre 2014 in appello: giovedì, contro di loro, è prevista la requisitoria del procuratore generale Antonino Condorelli. Prima delle arringhe difensive, la parola passerà alle parti civili: l’imprenditore Alessandro Leardini (rappresentato dai legali Nicola Avanzi e Marco Pezzotti), che imputa alla coppia di aver prete so ma z ze t te pe r ol t re 600mila euro in cambio dell’agevolazione nelle pratiche urbanistiche che riguardavano le sue imprese, e l’amministrazione comunale di Verona (tutelata dall’avvocato Giovanni Caineri) per danni morali e d’immagine. «Giacino, strumentalizzando la sua funzione pubblica, ha svolto una costante pressione sul Leardini, fatta di imposizioni o di blandizie, per costringere costui a pagare - scrive a pagina 10 il giudice relatore dell’Appello -. E pagare era conveniente per l’imprenditore edile che, tuttavia, aveva pur sempre un margine di libertà nella contrattazione circa il quanto». Inoltre, continua la relazione preliminare del processo d’appello, «era chiara la partecipazione al reato della Lodi che, sotto la regia strategica del marito, teneva i contatti tra costui e Leardini, facendosi parte attiva per ricevere il denaro ovvero nell’emettere le false fatture per consulenze mai prestate. Pienamente sussistente, pertanto, anche l’elemento soggettivo». Per quanto riguarda invece il trattamento sanzionatorio, «trattandosi di fatti connotati da rilevante gravità che impedivano il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e sussistendo il vincolo della continuazione, veniva individuato in primo grado - prosegue la relazione del giudice d’Appello - il reato più grave nell’episodio del 2013 (quello relativo al piano degli interventi con la promessa di una tangente da oltre un milione di euro) e, discostandosi per la pena base dal minimo edittale, venivano irrogate le pene che si differenziavano per gli imputati in ragione della diversa posizione (certamente preminente quella di Giacino)». Due condanne motivate con il fatto che «in definitiva il Leardini , che temeva di non ottenere soddisfazione del credito vantato verso il Comune di Verona e non voleva inimicarsi l’assessore all’urbanistica per paura di perdere la possibilità di nuovi affari, si era subito risolto a subire le pressioni di Giacino». E ora la parola torna ai giudici, ma di secondo grado.