L’ERA DEL ROBOT COLLABORATIVO
Due anni fa, McKinsey Quarterly stimava che gli sviluppi della robotica industriale nel giro di un decennio avrebbero portato l’automazione dei lavori industriali ad oscillare tra il 15% e il 25% nei Paesi avanzati come l’Italia. Il Nord Est sta muovendo passi significativi su questo fronte. Alcuni giorni fa, alla Carel di Brugine (180 milioni euro di fatturato, di cui quasi 150 all’estero e con stabilimenti in tre continenti) hanno messo in funzione i robot «collaborativi», che aprono una nuova era del lavoro manifatturiero e lanciano nuove sfide al sistema economico, formativo e sociale.
I robot tradizionali, ancorché «antropomorfi» (cioè, dotati di bracci meccanici articolati, che assomigliano agli arti superiori di noi umani) sono adatti a svolgere operazioni ripetitive e stabili: uno straordinario mezzo per aumentare l’efficienza, mantenere i livelli di qualità (il robot non si distrae, non si annoia e non si stanca) ed evitare a noi l’alienazione generata dai lavori che si riducono a micro-attività prive di senso compiuto (avvitare quattro bulloni piuttosto che inserire un pannello nell’apposito alloggiamento per una vita intera). I robot «collaborativi» fanno molto di più: interagiscono con le persone, sono integrati nel processo produttivo insieme agli umani, sono efficienti anche nei processi con rapidi cambi nel programma di produzione. Praticamente, vuol dire che non devono più essere collocati in gabbie protettive, perché reagiscono ai movimenti delle persone che stanno accanto: si fermano se qualcuno per distrazione si avvicina troppo o per errore inciampa e gli va addosso.
A queste caratteristiche, gli ingegneri della Carel hanno aggiunto un software personalizzato, che permette di arrivare alla riprogrammazione delle attività del robot addirittura ogni 15 minuti, indispensabile per rispondere a una varietà di prodotti fino a 30 diversi codici al giorno. Da questa esperienza, possiamo trarre varie lezioni. Il futuro del Made in Italy, oltre che sulle «mani» e sulla «creatività» degli italiani brillantemente descritte dal visionario Stefano Micelli, potrà contare anche sulle «macchine» per dare nuovo impulso alla manifattura industriale in serie, che si poggia sulla «tecnologia» e sulle «scienze dure». Quelli che sognano di riportare in Italia le produzioni delocalizzate (reshoring) dovranno fare i conti con questi temi e con i necessari ingenti investimenti in capitale fisso.
Il sindacato si attrezzi per diventare partner delle direzioni del personale al fine di ripensare le forme di organizzazione del lavoro.Avremo bisogno di operai di «nuova generazione», che ampliano il raggio di azione delle loro attività e sviluppano competenze centrate più sul controllo del processo che sull’esecuzione delle singole operazioni, per evitare l’umiliazione di essere messi in competizione con robot senza anima e senza cuore (oltre che senza famiglia). La rappresentanza nei luoghi di lavoro adotti logiche di «competizione»: collaborazione per nobilitare il lavoro, competizione per ripartire il valore che il lavoro genera. I lavori del futuro esistono già, e non ci resta che farli conoscere. Portiamo le Università e i centri di formazione professionale dentro queste fabbriche, per vedere come le conoscenze si trasformano in nuove competenze. Per le famiglie, facciamo lo storytelling del lavoro dei loro figli (e, a volte, dei genitori stessi). I robot di Carel ci dicono che l’erba più verde non sta nel giardino del vicino, ma nel nostro. Coltiviamola.