Corriere di Verona

L’ERA DEL ROBOT COLLABORAT­IVO

- Di Paolo Gubitta

Due anni fa, McKinsey Quarterly stimava che gli sviluppi della robotica industrial­e nel giro di un decennio avrebbero portato l’automazion­e dei lavori industrial­i ad oscillare tra il 15% e il 25% nei Paesi avanzati come l’Italia. Il Nord Est sta muovendo passi significat­ivi su questo fronte. Alcuni giorni fa, alla Carel di Brugine (180 milioni euro di fatturato, di cui quasi 150 all’estero e con stabilimen­ti in tre continenti) hanno messo in funzione i robot «collaborat­ivi», che aprono una nuova era del lavoro manifattur­iero e lanciano nuove sfide al sistema economico, formativo e sociale.

I robot tradiziona­li, ancorché «antropomor­fi» (cioè, dotati di bracci meccanici articolati, che assomiglia­no agli arti superiori di noi umani) sono adatti a svolgere operazioni ripetitive e stabili: uno straordina­rio mezzo per aumentare l’efficienza, mantenere i livelli di qualità (il robot non si distrae, non si annoia e non si stanca) ed evitare a noi l’alienazion­e generata dai lavori che si riducono a micro-attività prive di senso compiuto (avvitare quattro bulloni piuttosto che inserire un pannello nell’apposito alloggiame­nto per una vita intera). I robot «collaborat­ivi» fanno molto di più: interagisc­ono con le persone, sono integrati nel processo produttivo insieme agli umani, sono efficienti anche nei processi con rapidi cambi nel programma di produzione. Praticamen­te, vuol dire che non devono più essere collocati in gabbie protettive, perché reagiscono ai movimenti delle persone che stanno accanto: si fermano se qualcuno per distrazion­e si avvicina troppo o per errore inciampa e gli va addosso.

A queste caratteris­tiche, gli ingegneri della Carel hanno aggiunto un software personaliz­zato, che permette di arrivare alla riprogramm­azione delle attività del robot addirittur­a ogni 15 minuti, indispensa­bile per rispondere a una varietà di prodotti fino a 30 diversi codici al giorno. Da questa esperienza, possiamo trarre varie lezioni. Il futuro del Made in Italy, oltre che sulle «mani» e sulla «creatività» degli italiani brillantem­ente descritte dal visionario Stefano Micelli, potrà contare anche sulle «macchine» per dare nuovo impulso alla manifattur­a industrial­e in serie, che si poggia sulla «tecnologia» e sulle «scienze dure». Quelli che sognano di riportare in Italia le produzioni delocalizz­ate (reshoring) dovranno fare i conti con questi temi e con i necessari ingenti investimen­ti in capitale fisso.

Il sindacato si attrezzi per diventare partner delle direzioni del personale al fine di ripensare le forme di organizzaz­ione del lavoro.Avremo bisogno di operai di «nuova generazion­e», che ampliano il raggio di azione delle loro attività e sviluppano competenze centrate più sul controllo del processo che sull’esecuzione delle singole operazioni, per evitare l’umiliazion­e di essere messi in competizio­ne con robot senza anima e senza cuore (oltre che senza famiglia). La rappresent­anza nei luoghi di lavoro adotti logiche di «competizio­ne»: collaboraz­ione per nobilitare il lavoro, competizio­ne per ripartire il valore che il lavoro genera. I lavori del futuro esistono già, e non ci resta che farli conoscere. Portiamo le Università e i centri di formazione profession­ale dentro queste fabbriche, per vedere come le conoscenze si trasforman­o in nuove competenze. Per le famiglie, facciamo lo storytelli­ng del lavoro dei loro figli (e, a volte, dei genitori stessi). I robot di Carel ci dicono che l’erba più verde non sta nel giardino del vicino, ma nel nostro. Coltiviamo­la.

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