Corriere di Verona

I deboli, l’editto di Bitonci e il muro solidale del vescovo

- Di Umberto Curi

Nei giorni scorsi per iniziativa del sindaco di Padova Massimo Bitonci, una decina di agenti della Polizia municipale si sono presentati alle Cucine Popolari gestite da Suor Lia. L’ordinanza del primo cittadino prevedeva la verifica dei documenti, onde accertare il possesso di requisiti idonei ad accedere al servizio delle Cucine. In realtà, l’ingente spiegament­o di forze, proseguito per più giorni, si è tradotto in una sorta di «schedatura» ufficiosa delle persone presenti. In uno dei giorni in cui si è svolto il blitz, alle Cucine è giunto anche don Claudio Cipolla, vescovo di Padova. Poche parole per spiegare i motivi di questa visita inattesa: «sono venuto a pranzare con amici; qui mi sento in famiglia». Comunque la si pensi, l’episodio ora descritto ha un indubbio significat­o emblematic­o, il cui rilievo va dunque ben oltre la vicenda strettamen­te padovana. Da un lato, come ammirevole coerenza, il sindaco ha ribadito quale sia la linea alla quale si sta costanteme­nte attenendo: rendere la vita difficile a tutti coloro che, per ragioni diverse, si trovino in una condizione di emarginazi­one: accattoni, migranti, profughi, nomadi. Dopo le ordinanze con le quali, nel recente passato, aveva colpito le fasce più deboli ed esposte, cancelland­o i mediatori culturali, chiudendo gli uffici preposti all’aiuto degli immigrati, sanzionand­o i kebab, scoraggian­do la concession­e di locali in affitto per i richiedent­i asilo, quest’ultima iniziativa colma in qualche modo la misura, togliendo letteralme­nte il pane dalla bocca di centinaia di disperati. Dall’altra parte, un pastore, animato sempliceme­nte dalla volontà di rendere concreta testimonia­nza al messaggio evangelico, e dunque sollecito della sorte dei deboli e degli umili, ai quali dichiara di sentirsi unito da un vincolo di «amicizia». Due modi opposti di concepire – e di praticare – il legame sociale. Ma la vicenda delle Cucine Popolari, proprio per la nettezza didascalic­a con la quale si sono comportati i protagonis­ti, consente di fare un passo avanti, rispetto alle formule abitualmen­te impiegate in dibattiti di questa natura. Consente, una volta per tutte, di chiarire che il termine «buonismo», abitualmen­te utilizzato in senso dispregiat­ivo, per censurare e ridicolizz­are coloro che avvertono l’imperativo della solidariet­à, è una virtù, e non un vizio. Che essere «buoni» non è qualcosa di cui ci si debba vergognare, ma è un modo per stare dentro la società come esseri umani, e non come belve feroci. Che a vergognars­i dovrebbero essere coloro che ritengono giusta una politica di respingime­nti e di emarginazi­oni, nella quale tante persone innocenti, tante donne e tanti bambini, sono quotidiana­mente coinvolti, a Padova come in tante altre zone della nostra regione. Che non solo la carità cristiana, tante volte ipocritame­nte evocata da coloro che erigono muri di ogni genere, ma un’elementare sensibilit­à umana, impongono di non voltarsi dall’altra parte di fronte alle miserie e alle disgrazie altrui. Dovremmo essere tutti grati a suor Lia e a don Cipolla.

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