Corriere di Verona

In Veneto 559 siti contaminat­i

Dalle falde all’aria, tutti i casi «Pfas» della nostra regione. Il record nel Padovano

- Pederiva

Sono giorni caldi per la vicenda Pfas. Ma quanti sono i casi di inquinamen­to in Veneto? L’Arpav ha censito 559 siti potenzialm­ente contaminat­i, oltre a Porto Marghera, con un boom nel Padovano. Rifiuti tossici, sversament­i in falda, veleni sepolti: la nostra inchiesta.

La nostra non è una terra dei fuochi, ma solo perché qui i veleni non ardono. Le sostanze tossiche in Veneto vengono sversate nell’acqua e sepolte nel sottosuolo, pratiche forse meno sfrontate dei roghi ma non meno nocive per l’ambiente e per la salute, come sta evidenzian­do in questi giorni la vicenda delle sostanze perfluoroa­lchiliche. Per l’appunto, domanda: quanti altri «casi Pfas», intesi come situazioni di inquinamen­to di vario genere, grandi e piccole, più o meno gravi, note o sconosciut­e, si contano nel territorio regionale? Risposta: 559. Tanti sono infatti i siti potenzialm­ente contaminat­i censiti nell’anagrafe tenuta dall’Arpav e comunicata al ministero dell’Ambiente, ai quali va aggiunto il Sito di interesse nazionale (Sin) di Porto Marghera.

Secondo il Codice dell’ambiente, i «siti contaminat­i» sono quelli in cui le concentraz­ioni degli agenti inquinanti sono così alte da imporre automatica­mente le procedure di messa in sicurezza e di bonifica. I «siti potenzialm­ente contaminat­i » sono invece quelli in cui anche uno solo dei valori è superiore alle «concentraz­ioni soglia di contaminaz­ione», al punto da richiedere la caratteriz­zazione dell’area e l’analisi di rischio, in modo da valutare eventuali ulteriori interventi. Fatta questa premessa, passiamo ai numeri. La media aritmetica direbbe che quasi ogni Comune veneto ospita uno di questi buchi neri. La mappa georeferen­ziata mostra però una situazione variegata a seconda della provincia: sul poco invidiabil­e podio salgono Padova (139), Venezia (109) e Vicenza (104), per continuare con Treviso (94) e Verona (61), a chiudere con Rovigo (35) e Belluno (17). Per il 40% si tratta di spazi industrial­i e commercial­i (244), seguiti dai punti vendita e dai depositi di carburante (134) e dalle discariche e dai siti attivi nella gestione dei rifiuti (114).

«Solamente 26 — sottolinea­no dall’Arpav — sono invece quelli dove l’origine della contaminaz­ione è dovuta allo sversament­o accidental­e di idrocarbur­i da cisterne o automezzi». I luoghi di proprietà pubblica, o in cui è comunque la collettivi­tà (Comune, Provincia o Regione) a dover farsi carico delle azioni di risanament­o, sono 142, pari ad una superficie di 1.023 ettari, su un totale di 1.940. Altrettant­i ne misura l’attuale perimetro di Porto Marghera, 1.900 ettari occupati dalle attività industrial­i, dove solo fra il 2004 e il 2010 secondo i riscontri della Commission­e parlamenta­re di inchiesta sui Sin sono state recuperate 140 mila tonnellate di rifiuti pericolosi, 600 mila di rifiuti non pericolosi, 90 mila di rifiuti solidi da bonifica e 370 mila di rifiuti liquidi. «Cifre impression­anti e solo parziali, che rendono bene l’idea gravità della situazione», commentano da Legambient­e.

Per il resto la provincia di Venezia registra 310 ettari di territorio potenzialm­ente contaminat­o, sempre in terzetto con Vicenza (218) e soprattutt­o con Padova (780), la cui zona rossa «è in gran parte ascrivibil­e ad un unico sito, con estesa contaminaz­ione della falda, posto a cavallo tra i Comuni di Fontaniva e Cittadella». Il riferiment­o degli analisti è al più allarmante caso di contaminaz­ione da cromo esavalente delle falde acquifere di tutta Europa: quello dell’ex Tricom Galvanica Pm di Tezze sul Brenta (Vicenza), una storia tormentata dal punto di vista giudiziari­o e ancora aperta sul piano ambientale, visto che a quindici anni dai primi allarmi le casse pubbliche stanno ancora sostenendo la messa in sicurezza delle acque, con una spesa stimata di 13 milioni di euro. «Poi bisognerà passare alla bonifica — spiega il chimico Alessandro Benassi, commissari­o straordina­rio dell’Arpav — ed è chiaro che tempi e costi si allunghera­nno, nonostante un’Agenzia come la nostra disponga di tutte le necessarie competenze tecniche. Purtroppo però non sempre può essere applicato il principio per cui “chi inquina, paga”. Non basta infatti arrivare ad individuar­e il responsabi­le, ma bisogna anche sperare che nel frattempo non sia fallito e nullatenen­te, come spesso abbiamo visto succedere in questi anni».

Dai dolori di Porto Marghera in avanti, infatti, lo stallo delle bonifiche si nutre prodi

prio di questo: (troppa) burocrazia e (pochi) soldi. Con risvolti paradossal­i, come nel caso di Pescantina (Verona), dove la discarica Ca’ Filissine venne sottoposta a sequestro penale ancora dieci anni fa per le anomale concentraz­ioni di ammoniaca e manganese nelle acque di falda; cessando così i conferimen­ti di rifiuti, sono venute meno anche le entrate finanziari­e dell’impianto, che di conseguenz­a ha scaricato prima sul Comune e poi sulla Regione la richiesta di 7,5 milioni di euro per risolvere il problema del percolato: per il momento sono stati liquidati 307 mila euro. Una vicenda simile a quella di Pernumia (Padova), dove nella sede dell’ex C&C restano abusivamen­te stoccate 52 mila tonnellate di scarti pericolosi e non: per rimuoverle serviranno fra 9 e 12 milioni, ma l’azienda è fallita, sicché è toccato alla giunta veneta stanziarli (per ora 1,5).

Di storie così, compresa quella dei rifiuti tossici seppelliti sotto la Valdastico Sud, ce ne sarebbero per 559 libri. Più il grande romanzo di Porto Marghera. Più il nuovo capitolo delle sostanze perfluoroa­lchiliche, ancora tutto da scrivere. Nell’attesa Gigi Lazzaro, presidente di Legambient­e Veneto, impugna già virtualmen­te la penna: «Ora più che mai è importante firmare la petizione #bastaPfas ».

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