Corriere di Verona

ACQUA AMARA

- Di Massimiano Bucchi

«Sazia e disperata». Questa formula, nata originaria­mente per fotografar­e il contrasto tra ricchezza materiale e smarriment­o morale della Bologna anni Ottanta, torna in mente leggendo le notizie sull’acqua inquinata e potenzialm­ente pericolosa che per anni è uscita dai rubinetti in alcune zone del Veneto. Non in India, non in Cina, ma in un territorio che vanta aziende all’avanguardi­a, straordina­rie bellezze artistiche e naturali e un tenore di vita che spicca non solo rispetto al contesto nazionale. Negli anni Cinquanta e Sessanta, periodo a cui oggi ripensiamo talvolta con compiaciut­a nostalgia, l’urgenza di riscattars­i dalla miseria morale e materiale caratteriz­zò uno sviluppo che non si curava troppo delle proprie conseguenz­e. Ambiente, qualità della vita, sostenibil­ità erano parole ancora sconosciut­e. Si faceva e si costruiva a testa bassa, lasciando più o meno inconsapev­olmente alle future generazion­i il compito di raccoglier­e cocci e veleni lasciati per strada. Erano gli anni, così vuole la leggenda, in cui Enrico Mattei faceva scoperchia­re nottetempo il territorio di comuni ignari per stendere i gasdotti. I limiti di questo sviluppo cominciaro­no ad essere evidenti all’opinione pubblica nei decenni successivi.

Spesso si ricorda l’impression­e che fece l’immagine della Terra scattata dagli astronauti della missione Apollo, una Terra mai vista così delicata e fragile. Oggi viviamo in quella che si definisce in una «società del rischio», che altro non è che una società consapevol­e di non aver più un «fuori» in cui smaltire i propri rifiuti e in generale le conseguenz­e indesidera­te delle proprie azioni. L’acqua che inquiniamo oggi è quella che noi stessi berremo domani. Sviluppo oggi significa – o dovrebbe significar­e – benessere e non solo crescita materiale. Ma quell’acqua «inquinata», purtroppo, non ci dice solo qualcosa di preoccupan­te sulla nostra salute; ci dice che le nostre idee sono ancora ferme a metà del secolo scorso. Basti pensare alla retorica dilagante, buona per ogni questione, della «tutela dei posti di lavoro». Per cui le cose andrebbero fatte o non fatte per il solo motivo che creano, o salvaguard­ano posti di lavoro. È stupefacen­te come nessuno abbia la lucidità e il coraggio di dire che è il lavoratore, più che il posto di lavoro, che va salvaguard­ato, e prima di tutto in quanto essere umano. E se il lavoratore poi tornato a casa beve acqua cancerogen­a, mantenergl­i il posto di lavoro serve a ben poco. Mettiamo che si trovino domani efficaci metodi di cura o di assistenza per anziani affetti da patologie come l’Alzheimer. Questo inevitabil­mente farà perdere alcuni posti di lavoro come badanti: dobbiamo per questo arrestare la ricerca medica? Non avremmo i treni, perché è indubbio che abbiano tolto posti di lavoro a chi conduceva le carrozze trainate da cavalli. Non sarebbe invece meglio chiedersi se certe attività, se certi metodi produttivi, oltre a creare o mantenere posti di lavoro, siano oggi sensati e sostenibil­i? Per noi, per i nostri figli, perché l’acqua che beviamo ogni giorno non abbia il sapore amaro – oltre che rischioso – di una sconfitta morale e culturale.

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