ACQUA AMARA
«Sazia e disperata». Questa formula, nata originariamente per fotografare il contrasto tra ricchezza materiale e smarrimento morale della Bologna anni Ottanta, torna in mente leggendo le notizie sull’acqua inquinata e potenzialmente pericolosa che per anni è uscita dai rubinetti in alcune zone del Veneto. Non in India, non in Cina, ma in un territorio che vanta aziende all’avanguardia, straordinarie bellezze artistiche e naturali e un tenore di vita che spicca non solo rispetto al contesto nazionale. Negli anni Cinquanta e Sessanta, periodo a cui oggi ripensiamo talvolta con compiaciuta nostalgia, l’urgenza di riscattarsi dalla miseria morale e materiale caratterizzò uno sviluppo che non si curava troppo delle proprie conseguenze. Ambiente, qualità della vita, sostenibilità erano parole ancora sconosciute. Si faceva e si costruiva a testa bassa, lasciando più o meno inconsapevolmente alle future generazioni il compito di raccogliere cocci e veleni lasciati per strada. Erano gli anni, così vuole la leggenda, in cui Enrico Mattei faceva scoperchiare nottetempo il territorio di comuni ignari per stendere i gasdotti. I limiti di questo sviluppo cominciarono ad essere evidenti all’opinione pubblica nei decenni successivi.
Spesso si ricorda l’impressione che fece l’immagine della Terra scattata dagli astronauti della missione Apollo, una Terra mai vista così delicata e fragile. Oggi viviamo in quella che si definisce in una «società del rischio», che altro non è che una società consapevole di non aver più un «fuori» in cui smaltire i propri rifiuti e in generale le conseguenze indesiderate delle proprie azioni. L’acqua che inquiniamo oggi è quella che noi stessi berremo domani. Sviluppo oggi significa – o dovrebbe significare – benessere e non solo crescita materiale. Ma quell’acqua «inquinata», purtroppo, non ci dice solo qualcosa di preoccupante sulla nostra salute; ci dice che le nostre idee sono ancora ferme a metà del secolo scorso. Basti pensare alla retorica dilagante, buona per ogni questione, della «tutela dei posti di lavoro». Per cui le cose andrebbero fatte o non fatte per il solo motivo che creano, o salvaguardano posti di lavoro. È stupefacente come nessuno abbia la lucidità e il coraggio di dire che è il lavoratore, più che il posto di lavoro, che va salvaguardato, e prima di tutto in quanto essere umano. E se il lavoratore poi tornato a casa beve acqua cancerogena, mantenergli il posto di lavoro serve a ben poco. Mettiamo che si trovino domani efficaci metodi di cura o di assistenza per anziani affetti da patologie come l’Alzheimer. Questo inevitabilmente farà perdere alcuni posti di lavoro come badanti: dobbiamo per questo arrestare la ricerca medica? Non avremmo i treni, perché è indubbio che abbiano tolto posti di lavoro a chi conduceva le carrozze trainate da cavalli. Non sarebbe invece meglio chiedersi se certe attività, se certi metodi produttivi, oltre a creare o mantenere posti di lavoro, siano oggi sensati e sostenibili? Per noi, per i nostri figli, perché l’acqua che beviamo ogni giorno non abbia il sapore amaro – oltre che rischioso – di una sconfitta morale e culturale.