Mose, nuova inchiesta sui cassoni Mazzetta sui lavori
Scoperta un’altra tranche di fondi neri : «Usati per campagne elettorali»
VENEZIA Fatture gonfiate di 500 mila euro e fondi neri per la metà. A Chioggia funzionava così e ora Pio Savioli, l’uomo del Coveco che ha confessato la «cresta» sui cassoni del Mose, è indagato in una nuova inchiesta della procura di Venezia.
VENEZIA «Non voglio rispondere su questa domanda perché ci sono cose in corso». C’è stato un momento in cui l’interrogatorio di Pio Savioli dello scorso 7 luglio nel corso del processo Mose ha avuto un imprevisto. Savioli, che già aveva parlato a lungo nell’udienza precedente, doveva terminare il controesame di un unico avvocato, Paolo Rizzo, difensore dell’imprenditore Nicola Falconi, accusato di aver fatto parte del sistema che, attraverso le retrocessioni delle fatture false o gonfiate, corrompeva i pubblici funzionari o i politici oppure finanziava illecitamente le campagne elettorali. Rizzo, a un certo punto, introduce il tema dei cassoni della bocca di porto di Chioggia e chiede a Savioli se ci siano mai state delle retrocessioni. «Non vorrei rispondere, ci sono cose che abbiamo già dichiarato, non vedo che cosa c’entrino», balbetta l’ex referente del Coveco, il consorzio delle coop venete all’interno del comitato direttivo del Consorzio Venezia Nuova. E interviene anche il pm Stefano Ancilotto: «Stiamo andando su tutta un’altra indagine aperta sulla Mose 6».
La notizia è proprio questa. In quella sterminata inchiesta che è stata il Mose (non si dimentichi che l’informativa base della Guardia di Finanza del 2011 era di oltre 700 pagine) non si è fermato tutto al 4 giugno 2014, il giorno degli arresti, o a ottobre-novembre dello stesso anno, quando la maggior parte dei big (tra cui Giancarlo Galan e Renato Chisso) hanno deciso di patteggiare. E nemmeno al processo in corso, dove sono imputati gli ultimi «reduci». Ci sono altri filoni nati da quella indagine: per esempio c’è la storia della Via del Mare, progettata da Adria Infrastrutture, società del gruppo Mantovani, per la quale ci sono sei funzionari regionali indagati per turbativa d’asta e il pm Stefano Ancilotto, dopo aver chiuso le indagini, dovrà chiedere il rinvio a giudizio. E poi c’è appunto la storia della Mose 6 e della «cresta» sui cassoni che serviva soprattutto per finanziare «in nero» i politici, su cui il pm Ancilotto ha aperto un nuovo fascicolo e su cui gli inquirenti stanno stringendo i tempi, tanto che poco tempo fa Savioli – che già aveva parlato della questione – è stato risentito sull’argomento.
La Mose 6 Srl è una società composta per l’80 per cento da Clea, cooperativa di Campolongo Maggiore, e per il 20 per cento dalla cooperativa chioggiotta San Martino. E’ a lei che Clodia, il soggetto che si occupava dei lavori alla bocca di porto di Chioggia unendo un colosso nazionale come Condotte e il Coveco, decide di appaltare la costruzione degli 8 cassoni previsti. Da contratto era previsto che fossero pagati 16,5 milioni l’uno dal Magistrato alle Acque al Consorzio Venezia Nuova, che poi avrebbe dovuto «comprarli» dalla Clodia. Secondo il racconto del consulente del Coveco, in realtà il costo vivo del cassone era stato stimato in circa la metà – 7,6 milioni di euro – e già da questo si può capire come ci fosse un enorme margine «regolare». A quel punto però si decise di «gonfiare» il costo di ognuno dei cassoni di 500 mila euro (arrivando dunque a 8,1 milioni), da dividere a metà con una retrocessione «in nero»: 250 mila se li teneva la Mose 6 per le tasse e il «disturbo», altrettanti se li spartivano l’uomo di Condotte, Stefano Tomarelli, e Savioli. Il primo, come confessa nell’interrogatorio del 24 giugno 2014, se ne prendeva 160 mila, di cui 30-35 mila per sé e il resto per l’ingegner Paolo Bruno, all’epoca presidente di Condotte (poi deceduto e dunque non in grado di replicare). «Sugli otto cassoni doveva arrivare a un milione», aveva spiegato.
E poi c’è Savioli, che ora si ritrova indagato per il reato di emissione di false fatture, mentre per Tomarelli e Stefano Boscolo Bacheto (figlio di Mario, presidente della San Martino, oggi deceduto), la questione dovrebbe essere stata «tombata» con il patteggiamento. Lui stesso il 14 luglio 2014, in un interrogatorio agli atti di inchiesta (quello recente è ovviamente coperto da segreto) ha fatto uno schemino precisissimo di fronte ai finanzieri: 20 mila finivano a Mario Boscolo Bacheto; 30 mila direttamente a Giampietro Marchese (che però ha negato) e dunque al Pd; gli altri 40 li teneva lui, una parte per se stesso, un’altra per fini politici. Il giochino funzionò per sette cassoni e Savioli si prese 280 mila euro. «Di questi, 100 mila andarono al sottoscritto - ha poi spiegato - 80 mila per le elezioni comunali del 2010, consegnati a Marchese, 100 mila per le politiche del febbraio 2013, consegnati anche questi a Marchese». Un modo artigianale, «in proprio», per creare nuovi fondi neri da usare per «oliare» la politica e creare ulteriore consenso sul Mose. E ora, nella lunga lista dei reati per cui Savioli dovrà patteggiare, c’è anche questo.