Corriere di Verona

SIAMO UNA TERRA «CONTRO»

- Di Alessandro Russello

«Dobbiamo credere nella cosa pubblica ricostruen­do un nuovo ceto dirigente con il contributo di persone di ogni età, ceto e partito profondame­nte diversi dai cialtroni che complice anche la nostra colpevole distrazion­e - ci hanno raccontato di finanza veneta, di autonomia veneta, di un Nordest da bere e di grandi opere da portare come esempio di buon governo e di buona gestione del denaro pubblico».

Il tranciante atto d’accusa (ma anche di autocritic­a) contenuto nella lettera aperta di Maria Cristina Piovesana, presidente di Unindustri­a Treviso, pubblicata ieri anche dal nostro giornale,tocca nel vivo la parte molle di questa regione. Regione con ambizioni di Stato (non solo per dna storico), da qualche decennio posizionat­o ai primi posti del Pil ma sempre più al fondo classifica in fatto di «classe dirigente». Al punto che mai miglior definizion­e fu coniata per inchiodarl­a alla sua (cioè nostra) realtà: Veneto gigante economico e nano politico. Dove di «politico», tanto per capirci, non c’è solo la classe politica che siede in parlamento ma anche quella che fa parte del «sistema» (imprese, profession­i, comuni, sindacato, mondo della cultura e dell’istruzione) che costituisc­e una comunità di 5 milioni di abitanti. Una storia vecchia, per certi versi. Che prende corpo fin da quando governava, interclass­ista e potente, la Dc pre-muro.

La «vandea» della Prima Repubblica che faceva il pieno di voti, di ministri e che arrivò ad avere perfino un premier (Mariano Rumor). Era un’epoca forse più «facile»: l’Italia era tutta da ricostruir­e e i padri fondativi di questo Paese - con un consenso inimmagina­bile rispetto agli spezzatini del potere odierno - incisero non solo culturalme­nte (valori cattolici) ma declinaron­o il verbo «fare» costruendo scuole e ospedali e favorendo la civiltà dei capannoni che pur facendoci del male seppellì il dramma dell’emigrazion­e, della fame e dell’arretratez­za.

Ma fu un «furore» local. Rispetto ad una visione e la ricerca di una centralità nazionale, quel Pil politico fatto di voti e rappresent­anza pur con una qualità di tutto rispetto - fece prevalere in gran parte logiche territoria­li e correntizi­e che puntavano a conservare il consenso premiando «a pioggia» una collateral­ità fatta in larga parte di mondo contadino, artigiano e associazio­nistico.

Poi, all’inizio degli anni Novanta, con Tangentopo­li, ecco la Seconda Repubblica, ma il copione non cambia. Anzi. Nonostante una progressiv­a crescita economica, il filone del «campanile» diventa quello dell’ «identitari­smo» meno spirituale e più laico (e pagano). Nel bene e nel male, la «civiltà degli schèi» . E delle derive delle quali parla nella sua lettera Piovesana alludendo alla finanza cattiva e alle cattive abitudini di chi costruendo opere ha intascato tangenti. Oltre che, appunto, di un «separatism­o» nocivo. Il «Nordest da bere».

«Non dovete lamentarvi di come vi raccontano, semmai dovete imparare voi stessi a raccontarv­i», disse Santoro in un’affollata sala convegni a Conegliano in un dibattito sulla «reale identità dei veneti rispetto alle frequenti descrizion­i caricatura­li». In effetti, se il «santorismo» televisivo aveva il torto di raccontare il Veneto con una narrazione piena di stigmi e luoghi comuni (dimentican­do i record di sanità, volontaria­to, welfare, civismo e coesione sociale), il Santoro di quella sera aveva perfettame­nte ragione. Il problema di questa regione non è solo o tanto la rappresent­azione esterna, ma la sua autorappre­sentazione ( e gli effetti che tale autorappre­sentazione produce). Ovvero, un’azione e una «identità» quasi esclusivam­ente rivendicat­ivi. Rivendicaz­ioni anche giuste, anzi sacrosante. Come la guerra alla burocrazia, alla tassazione, agli sprechi altrui. Campione di questa politica è stato il leghismo, che se ha avuto il merito di porre il nodo irrisolto del federalism­o, ha «comunicato» al Paese che il Veneto era esclusivam­ente «contro» Roma e non «per» (la conquista di) Roma. E meglio del leghismo non ha fatto il forzaleghi­smo di Galan, che con seguito di ministri e sottosegre­tari a Roma anziché ambire a un progetto che come obiettivo avesse la «nordestizz­azione» del Paese attraverso una leadership sociale ed economica ha coltivato il suo orto nei modi in cui tutti sappiamo. Forzaleghi­smo che è stato un «mito» quasi antropolog­ico in questa terra post asburgica che per certi aspetti ricorda la dissoluzio­ne di quell’Impero magistralm­ente raccontata nei romanzi di Joseph Roth e Stefan Zweig. Lì franava l’idea di tenere uniti popoli e stati, qui sono franate le banche. Gli «stati» della nostra ricchezza.

E tanto bene non hanno fatto nemmeno gli imprendito­ri che pur con mille ragioni marciarono contro la capitale «comunicand­o» a Roma ma anche a Milano e Torino una dimensione ancora ribellista e non «nazionale». Imprendito­ri, sotto i nostri mille campanili, tanto bravi quanto divisi. E se non è fondamenta­le che un industrial­e veneto debba diventare per forza presidente nazionale di Confindust­ria, chiediamoc­i comunque perché non lo è mai diventato nonostante questa regione abbia non solo la forza del suo Pil ma anche uomini e aspetti innovativi che altri si sognano. Forse, dirà qualcuno, il Veneto non ha mai «governato» l’Italia perché sono mancate le «grandi famiglie» come in Piemonte o in Lombardia. O magari anche perché, a proposito di autorappre­sentazione, non ha mani avuto un giornale nazionale. Il dibattito è aperto. Detto questo, la presidente Piovesana ha ragione a reclamare una «nuova classe dirigente», ma abbiamo l’impression­e che oltre ad una questione di uomini e di «visioni», oltre che un problema politico ci sia un problema genetico. La regione dei campanili che continuiam­o ad essere nonostante le avanguardi­e che stanno tentando di sprovincia­lizzarla e farla diventare «mondo» - sembra coltivare ancora e sempre «separatezz­a». Non solo dall’Italia, ma anche fra provincia e provincia, comune e comune, impresa e impresa. Forse, anche senza aver rubato, siamo tutti un po’ «cialtroni»?

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