SIAMO UNA TERRA «CONTRO»
«Dobbiamo credere nella cosa pubblica ricostruendo un nuovo ceto dirigente con il contributo di persone di ogni età, ceto e partito profondamente diversi dai cialtroni che complice anche la nostra colpevole distrazione - ci hanno raccontato di finanza veneta, di autonomia veneta, di un Nordest da bere e di grandi opere da portare come esempio di buon governo e di buona gestione del denaro pubblico».
Il tranciante atto d’accusa (ma anche di autocritica) contenuto nella lettera aperta di Maria Cristina Piovesana, presidente di Unindustria Treviso, pubblicata ieri anche dal nostro giornale,tocca nel vivo la parte molle di questa regione. Regione con ambizioni di Stato (non solo per dna storico), da qualche decennio posizionato ai primi posti del Pil ma sempre più al fondo classifica in fatto di «classe dirigente». Al punto che mai miglior definizione fu coniata per inchiodarla alla sua (cioè nostra) realtà: Veneto gigante economico e nano politico. Dove di «politico», tanto per capirci, non c’è solo la classe politica che siede in parlamento ma anche quella che fa parte del «sistema» (imprese, professioni, comuni, sindacato, mondo della cultura e dell’istruzione) che costituisce una comunità di 5 milioni di abitanti. Una storia vecchia, per certi versi. Che prende corpo fin da quando governava, interclassista e potente, la Dc pre-muro.
La «vandea» della Prima Repubblica che faceva il pieno di voti, di ministri e che arrivò ad avere perfino un premier (Mariano Rumor). Era un’epoca forse più «facile»: l’Italia era tutta da ricostruire e i padri fondativi di questo Paese - con un consenso inimmaginabile rispetto agli spezzatini del potere odierno - incisero non solo culturalmente (valori cattolici) ma declinarono il verbo «fare» costruendo scuole e ospedali e favorendo la civiltà dei capannoni che pur facendoci del male seppellì il dramma dell’emigrazione, della fame e dell’arretratezza.
Ma fu un «furore» local. Rispetto ad una visione e la ricerca di una centralità nazionale, quel Pil politico fatto di voti e rappresentanza pur con una qualità di tutto rispetto - fece prevalere in gran parte logiche territoriali e correntizie che puntavano a conservare il consenso premiando «a pioggia» una collateralità fatta in larga parte di mondo contadino, artigiano e associazionistico.
Poi, all’inizio degli anni Novanta, con Tangentopoli, ecco la Seconda Repubblica, ma il copione non cambia. Anzi. Nonostante una progressiva crescita economica, il filone del «campanile» diventa quello dell’ «identitarismo» meno spirituale e più laico (e pagano). Nel bene e nel male, la «civiltà degli schèi» . E delle derive delle quali parla nella sua lettera Piovesana alludendo alla finanza cattiva e alle cattive abitudini di chi costruendo opere ha intascato tangenti. Oltre che, appunto, di un «separatismo» nocivo. Il «Nordest da bere».
«Non dovete lamentarvi di come vi raccontano, semmai dovete imparare voi stessi a raccontarvi», disse Santoro in un’affollata sala convegni a Conegliano in un dibattito sulla «reale identità dei veneti rispetto alle frequenti descrizioni caricaturali». In effetti, se il «santorismo» televisivo aveva il torto di raccontare il Veneto con una narrazione piena di stigmi e luoghi comuni (dimenticando i record di sanità, volontariato, welfare, civismo e coesione sociale), il Santoro di quella sera aveva perfettamente ragione. Il problema di questa regione non è solo o tanto la rappresentazione esterna, ma la sua autorappresentazione ( e gli effetti che tale autorappresentazione produce). Ovvero, un’azione e una «identità» quasi esclusivamente rivendicativi. Rivendicazioni anche giuste, anzi sacrosante. Come la guerra alla burocrazia, alla tassazione, agli sprechi altrui. Campione di questa politica è stato il leghismo, che se ha avuto il merito di porre il nodo irrisolto del federalismo, ha «comunicato» al Paese che il Veneto era esclusivamente «contro» Roma e non «per» (la conquista di) Roma. E meglio del leghismo non ha fatto il forzaleghismo di Galan, che con seguito di ministri e sottosegretari a Roma anziché ambire a un progetto che come obiettivo avesse la «nordestizzazione» del Paese attraverso una leadership sociale ed economica ha coltivato il suo orto nei modi in cui tutti sappiamo. Forzaleghismo che è stato un «mito» quasi antropologico in questa terra post asburgica che per certi aspetti ricorda la dissoluzione di quell’Impero magistralmente raccontata nei romanzi di Joseph Roth e Stefan Zweig. Lì franava l’idea di tenere uniti popoli e stati, qui sono franate le banche. Gli «stati» della nostra ricchezza.
E tanto bene non hanno fatto nemmeno gli imprenditori che pur con mille ragioni marciarono contro la capitale «comunicando» a Roma ma anche a Milano e Torino una dimensione ancora ribellista e non «nazionale». Imprenditori, sotto i nostri mille campanili, tanto bravi quanto divisi. E se non è fondamentale che un industriale veneto debba diventare per forza presidente nazionale di Confindustria, chiediamoci comunque perché non lo è mai diventato nonostante questa regione abbia non solo la forza del suo Pil ma anche uomini e aspetti innovativi che altri si sognano. Forse, dirà qualcuno, il Veneto non ha mai «governato» l’Italia perché sono mancate le «grandi famiglie» come in Piemonte o in Lombardia. O magari anche perché, a proposito di autorappresentazione, non ha mani avuto un giornale nazionale. Il dibattito è aperto. Detto questo, la presidente Piovesana ha ragione a reclamare una «nuova classe dirigente», ma abbiamo l’impressione che oltre ad una questione di uomini e di «visioni», oltre che un problema politico ci sia un problema genetico. La regione dei campanili che continuiamo ad essere nonostante le avanguardie che stanno tentando di sprovincializzarla e farla diventare «mondo» - sembra coltivare ancora e sempre «separatezza». Non solo dall’Italia, ma anche fra provincia e provincia, comune e comune, impresa e impresa. Forse, anche senza aver rubato, siamo tutti un po’ «cialtroni»?