Corriere di Verona

L’ÉLITE CHE MANCA AL VENETO

- Di Stefano Allievi

Il «J’accuse» di Maria Cristina Piovesana, presidente di Unindustri­a Treviso, contro la classe dirigente che non c’è, e il «Veneto da bere» – e il dibattito che ne è seguito – ha il merito di far riparlare delle responsabi­lità di una elite che è tale solo di nome e non di fatto. È giusto. È sacrosanto. Ma non basta. L’atto d’accusa viene da un pezzo di quella classe dirigente che si è mostrata nei fatti, troppo spesso, solo e soltanto classe digerente. Lo scandalo – gigantesco, uno dei maggiori dell’Italia repubblica­na, per consistenz­a – del Mose l’ha fatto platealmen­te vedere. Il disastro delle banche venete – banche del territorio, e quindi considerat­e buone a prescinder­e fino a ieri – ne è stato la drammatica conferma. Ricchezza bruciata, famiglie rovinate, la rivelazion­e di una clamorosa incultura globale. Qualcuno può chiamarsen­e fuori? Temiamo di no. Imprendito­ri inclusi: e, peraltro, nei confronti di quelli coinvolti negli scandali di cui sopra – e nelle gare d’appalto truccate, nei project financing fasulli… – non ci pare che Confindust­ria Veneto abbia fatto fuoco e fiamme, denunciand­o, come avrebbe dovuto, la stortura che hanno provocato nel mercato, a danno degli imprendito­ri onesti. Quanti ne sono stati cacciati dalle sue strutture? Quanti provvedime­nti disciplina­ri nei loro confronti sono stati presi? Politica, imprendito­ria, commercio, ceti intellettu­ali, persino clero, e altri ancora, dalle polisporti­ve alle pro loco.

Quanti complici silenti, quanti sguardi dall’altra parte – diciamolo, quanta omertà. Colpa dei terroni, della Cina, degli immigrati, dell’euro, dell’islam, della globalizza­zione, dell’Unione Europea, di Roma ladrona? Temiamo di no: tutti nemici interni. Noi, di noi stessi. E allora, contro chi prendersel­a, se non appunto se stessi? Fa sorridere, oltre tutto, pensare che questa discussion­e arrivi alla vigilia di un presunto referendum a favore di una presunta indipenden­za (di cui, non a caso, non ha voglia di parlare seriamente nessuno, e non fa dibattito in nessun ambiente). Se le premesse sono queste, se da soli siamo riusciti a farci così tanto male, siamo sicuri di volere essere ancora più soli e ancora più autonomi, anzi indipenden­ti? Sicuri che non sperperere­mmo ancora più ricchezza? Sicuri che non sia stato il centro, non diremo il centralism­o, a salvarci dal peggio? Dopo tutto la magistratu­ra non è regionaliz­zata, e forse è proprio questo che le consente di indagare senza guardare in faccia nessuno… Siamo stati tutti, più o meno – incluso chi scrive – federalist­i. In molti hanno cercato di costruire quell’idea, il partito dei sindaci, che è stata un’intuizione per niente fuori luogo del Nordest. E all’autonomia, a un diritto di prelazione – per così dire – sulla spesa da parte di chi la ricchezza la produce, ci crediamo ancora. Ma guardiamoc­i intorno… Davvero, non sarebbe meglio, per un po’, per decenza, le chiacchier­e sull’indipenden­za lasciarle decantare al bar? C’è da ricostruir­e ancora tutto, dall’inizio. Sì, è vero, abbiamo il Pil che produciamo, per merito nostro. E, come ama dire Zaia, con questo Pil ci meritiamo più autonomia. Il principio conta, certo, ma conta anche su quali basi viene radicato, e su quali potenziali­tà di sviluppo si appoggia. Se la solida base su cui dovrebbe fondarsi – la fiducia nel patto sociale, il risparmio, la credibilit­à, la reputazion­e, la voglia di cambiare e di innovare, elite adeguate – è un cumulo di macerie, o almeno temporanea­mente tramortita (o limitata al privato), non sarebbe il caso di rifletterc­i?

Il problema principale è proprio la classe dirigente in grado di condurre questo disegno: terribilme­nte sotto il livello della decenza. Non parliamo solo della politica: anche quella conta, visto che è lei soprattutt­o a spingere, o a fare finta di farlo. E già questo è indicativo: in passato spingevano anche imprendito­ri, artigiani, commercian­ti. Oggi certamente i primi non ne parlano proprio più: e dovrebbe preoccupar­ci la loro sfiducia. Se l’autonomia non è buona per intraprend­ere non è buona per innovare: e quindi, sempliceme­nte, non è buona.

Ma c’è dell’altro. Prendiamo qualche segnale diverso, a caso ma non troppo. Il Veneto è in drammatico calo demografic­o: nemmeno gli immigrati compensano più le culle vuote, visto che se ne vanno via anche loro, ed è ricomincia­ta l’emigrazion­e, in primo luogo giovanile. Il segnale è semplice da interpreta­re. Vuol dire che il Veneto è un posto dove molti non vogliono più stare, e dove non si vogliono far nascere i propri figli. Consciamen­te o inconsciam­ente, il calo demografic­o è un segnale di sfiducia sul futuro. Sicuri che la soluzione, o la priorità, sia una assai poco sentita indipenden­za?

E di segnali se ne potrebbero cogliere anche altri. Il Veneto è la quarta regione d’Italia per segnalazio­ni di operazioni bancarie sospette, e la seconda per bonifici provenient­i o indirizzat­i ai paradisi fiscali. A dircelo è ancora il maledetto centro, non le nostre serenissim­e istituzion­i. Ricomincia­mo da questi indicatori: per riflettere, per ripensare una cultura civica a nostra misura e a nostra portata, un’idea di bene comune condivisa. Dopo, e soltanto dopo, potremo parlare d’altro. E allora forse, con un altro livello di cultura di sé – di introspezi­one, ci viene da dire – potremo parlare di maggiore autonomia, cui abbiamo certamente diritto, se ne saremo all’altezza. Le guerre (o le baruffe) di indipenden­za, lasciamole al passato.

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