PERCHÉ HO APERTO LA MIA CASA
Martedì sera mi ha chiamato mio fratello Mario e, dopo il consueto «Tutto bene?», mi chiede «Hai visto cosa ha fatto il terremoto?». Un paio di commenti e poi: «Abbiamo una casa libera, perché non darla a chi in una manciata di secondi si è trovato senza?». Così è nata l’idea di postare su Facebook la nostra disponibilità. Fin qui, i fatti. Poi, ci sono i principi.
Chi altri se non ciascuno di noi ha il dovere di attivarsi a fronte delle emergenze, condividendo una parte delle «risorse» che ha? Lo stanno facendo migliaia di volontari incolonnati lungo l’Autostrada del Sole e l’Adriatica, che hanno le competenze e il tempo per aiutare le persone nei luoghi del disastro. Lo stanno facendo quelli che donano somme di denaro più o meno grandi per gli aiuti materiali. Mario ed io proviamo a farlo con quello che abbiamo (una casa), nella scia di un insegnamento appreso in famiglia fin dai tempi dei terremoti in Friuli e in Irpinia. Nulla di più e nulla di meno. Infine, vengono i significati. Nelle situazioni estreme, come le ore e i giorni che seguono una calamità, si sviluppano le cosiddette «organizzazioni effimere», microforme di azione collettiva che emergono spontaneamente nel giro di poco tempo per iniziativa di individui o gruppi, attorno a una situazione di elevato disordine e di «frantumazione» ambientale. La loro funzione è organizzare la solidarietà in situazioni di pericolo: riescono a «dare significato» a migliaia di attività semplici, a volte elementari, trasformandole in azioni efficaci, competenti e socialmente riconosciute. Ma sono anche entità labili e improvvisate, che hanno bisogno del coordinamento forte delle istituzioni preposte alle emergenze. Resta da capire a cosa serva una casa a 600 kilometri dal luogo del terremoto. Nel percorso di normalizzazione post disastro, l’accoglienza diffusa e capillare aiuta le persone in difficoltà senza stigmatizzarle, le integra (anche se pro tempore) in una nuova comunità e alimenta il senso civico. Non è poco.