Corriere di Verona

Quegli occhi pieni di sete Dopo il grande sisma è quasi una nuova nascita

- di Giovanni Montanaro SEGUE DALLA PRIMA

Non si vedono gli occhi che la guardano, né i suoi; in qualche modo, immagino che si somiglino, occhi pieni di sete, di gioia, di fretta. Le sue mani piccole si stringono nei pugni che fanno i bambini. È chiusa, spaventata, si difende, le ultime forze, continua a proteggers­i, perché le macerie non finiscono mica quando si sbuca fuori. Lì dove esce, da qualche parte a Pescara del Tronto, non c’è più niente. Niente che lei possa riconoscer­e, che le possa dire di essere a casa, anche perché la casa è il posto da cui scappare, il pericolo. E neanche i suoi soccorrito­ri sanno dove sono, come stare sulla luna. Vengono da lontano, lì non c’erano mai stati, ma non è solo quello. Non ci sono piazze, strade, campanili, scritte. Non c’è più niente. Non ci sono più le persone, che sono quelle che fanno i paesi. Alcune sono finite sotto, e bisogna cercarle. Ci sono i droni, i georadar, i cani. Ma per cominciare bisogna chiedere, a quelli che gridano, a quelli che si disperano, a quelli che rimangono lucidi, utili. «Dove sono le famiglie?». «Dove sono i bambini?». «Dove sono gli anziani?». «Quella, era una casa?» Cominciare vuol dire decidere; salvare qualcuno, forse, vuol dire non salvare qualcun altro. È che, per fortuna, non c’è tempo. E c’è quella sensazione di fare la cosa giusta, che è la migliore che si possa provare su questa terra, ma quasi sempre confina col dolore. E si comincia, dall’altro verso il basso, pietra su pietra, finché non si trova qualcosa. Essere sepolti vivi è la cosa peggiore che uno si possa immaginare, che possa capitare. E la beffa più atroce è esserlo senza una spiegazion­e, un destino, dalle proprie cose, dalle cose che dovevano salvarti, servirti, portarti avanti, essere sepolti da foto, tavoli, spazzolini, e poi armadi, cemento, tetti, soffitti. Eppure restar vivi, lì sotto, speranza e incubo, ore che paiono senza tempo, senza potersi muovere, con il terrore di morire. E poi, un filo di luce, un sussurro, la sensazione che ogni istante sia decisivo, ci sta una vita intera. È come nascere, venire fuori da un terremoto. Per questo, ci vuole qualcuno che ti possa tirare fuori. Lentamente, un piede, un braccio, un naso. Tirare fuori. Sono parole belle. Si tirano fuori le cose preziose, quando c’è un motivo speciale. I sorrisi, qualche volta. Le idee. Si tira fuori il coraggio, il meglio, il piglio, il carattere. Abbiamo tutti bisogno, qualche volta, di essere tirati fuori, di arrivare fuori. Giorgia, adesso, è fuori. Ha qualcosa di un’astronauta, ha qualcosa di un fiore.

Non c’è più niente, non ci sono le persone che sono quelle che fanno i paesi

Essere sepolti vivi è la cosa peggiore che uno si possa immaginare

Abbiamo tutti bisogno qualche volta di essere tirati fuori

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Il salvataggi­o La squadra dei vigili del fuoco veneziani mentre estrae dalle macerie di Pescara del Tronto la piccola Giorgia

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