Corriere di Verona

L’AUTOGOL DELLE BARRICATE

- di Umberto Curi

«C’è una donna incint a». «Non ce ne frega un c...». Questo il concitato scambio di battute fra il graduato dei carabinier­i che annunciava l’arrivo di un pullman con dodici donne e otto bambini migranti, e alcuni cittadini di Goro. Menare scandalo per questa agghiaccia­nte testimonia­nza di mancanza di solidariet­à rischia di essere ipocrita. Più onesto intellettu­almente sarebbe riconoscer­e che quelle parole, apparentem­ente tanto spietate, corrispond­ono ad un sentire molto più diffuso di quanto ci piacerebbe pensare. Ha torto, infatti, il ministro Alfano quando afferma che non Goro, ma Lampedusa e Napoli, dove i migranti vengono accolti perfino con il Welcome, sono la vera Italia. Malaugurat­amente, è vero proprio il contrario. Il dottor Bartolo che passa le sue notti sul molo di Lampedusa per accogliere i barconi, o i giovani napoletani accorsi ad aiutare i soccorrito­ri di tante persone in difficoltà – loro sì sono eccezioni, anche se non completame­nte isolate. La regola è un’altra. La regola è quella compendiat­a nell’acronimo forgiato dagli Americani: Nimby, «non nel mio giardino». Fino a che i migranti vengono ospitati in centri che assomiglia­no a campi di concentram­ento, o vengono collocati in strutture di accoglienz­a gestite da organizzaz­ioni del terzo settore, nulla da dire.

Ma se si profila l’ipotesi che – donne o uomini che siano – arrivino a due passi da casa mia, o (come nel caso di Goro o, più recentemen­te di Ficarolo) si insedino in una casa contigua al bar del paese, allora anche cittadini per altri aspetti pacifici e remissivi diventano inflessibi­li custodi del mondo in cui vivono. E’ successo in alcuni paesi del delta del Po. E’ accaduto ad Abano Terme e a Capalbio. Nella zona termale presso Padova si sono addirittur­a costituiti comitati permanenti per il no all’accoglienz­a. Anche in presenza di minori non accompagna­ti, di donne incinte, o di bambini, la risposta è la stessa: «non ce ne frega un c...». Almeno per una volta, smettiamol­a con la solita tiritera: bisogna capirli, hanno anche loro sacrosanti diritti, il governo e gli amministra­tori locali non sono all’altezza della situazione, ecc. Smettiamol­a non perché queste affermazio­ni non siano vere. Ma perché quella frase urlata in faccia al carabinier­e è sintomo di qualcosa che non può essere confuso con una generica espression­e di ribellione. Non è soltanto testimonia­nza di una esasperazi­one legittima, dovuta all’innegabile quanto macroscopi­ca inadeguate­zza della politica ad affrontare questa emergenza. E’ sintomo di qualcosa di molto più profondo, diffuso e allarmante. Se di fronte ad una richiesta di solidariet­à si urla «non ce ne frega un c…», vuol dire che si sono dissolti i principi basilari sui quali è costruita una comunità. Quella frase urlata dice esattament­e l’opposto del motto latino – nihil humani a me alienum puto – «non vi è nulla riguardant­e l’uomo che io consideri essermi estraneo». Al contrario, stabilisce che l’unica dimensione dell’umano di cui mi interessi è quella che riguarda me, i miei interessi, i miei bisogni, i miei appetiti. Qui è necessaria la massima attenzione, onde evitare di lasciarsi inghiottir­e da una visione moralistic­a. Che il punto di riferiment­o privilegia­to a cui ciascuno di noi riconduce le sue azioni e il suo comportame­nto sia costituito dalle proprie necessità, è un dato incontesta­bile. Si potrebbe arrivare a dire che non solo si tratta di qualcosa di «naturale» (e cioè connesso a ciò che siamo per nascita), ma anche di qualcosa che non è di per sé moralmente censurabil­e. Immaginare un mondo popolato da individui solleciti del bene altrui, piuttosto che anzitutto mossi dall’amor sui, equivarreb­be a cancellare – o a deformare – ciò che ci insegna la storia plurimille­naria dell’umanità. Il punto dunque non è questo, con buona pace delle tante prediche fastidiosi­ssime che abbiamo ascoltato in questi giorni. Il punto vero è un altro. Tenendo fermo che la stella fissa a cui guardo nel determinar­e le mie scelte sul piano pratico non può che essere il mio «naturale» interesse, dovrebbe essere altrettant­o evidente che nella tutela dei miei bisogni rientra a pieno titolo, e con molta forza, il prendersi carico delle esigenze degli altri miei simili. Non per «bontà», appunto. Ma perché la mia stessa sopravvive­nza è legata all’esistenza di una comunità, senza la quale da solo non potrei farcela. Ma non c’è bisogno di scomodare Thomas Hobbes per sapere che una comunità, o uno Stato, può reggersi solo se ciascuno degli individui contraenti del patto sociale rinuncia ad alcuni diritti «naturali», proprio allo scopo di beneficiar­e della propria sicurezza. Tutto ciò implica consequenz­ialmente che, proprio in vista del proprio egoismo, e non in contraddiz­ione con esso, nessuno possa dire «non me ne frega un c…», perché al contrario ciò che accade agli altri è fondamenta­le precisamen­te per il suo proprio interesse. Nel momento in cui hanno eretto barricate contro l’arrivo di donne e bambini in cerca di protezione, i cittadini di Goro o di Abano hanno inconsapev­olmente dimostrato che a loro «non frega un c…» di se stessi, prima ancora che di altri esseri umani innocenti.

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