L’AUTOGOL DELLE BARRICATE
«C’è una donna incint a». «Non ce ne frega un c...». Questo il concitato scambio di battute fra il graduato dei carabinieri che annunciava l’arrivo di un pullman con dodici donne e otto bambini migranti, e alcuni cittadini di Goro. Menare scandalo per questa agghiacciante testimonianza di mancanza di solidarietà rischia di essere ipocrita. Più onesto intellettualmente sarebbe riconoscere che quelle parole, apparentemente tanto spietate, corrispondono ad un sentire molto più diffuso di quanto ci piacerebbe pensare. Ha torto, infatti, il ministro Alfano quando afferma che non Goro, ma Lampedusa e Napoli, dove i migranti vengono accolti perfino con il Welcome, sono la vera Italia. Malauguratamente, è vero proprio il contrario. Il dottor Bartolo che passa le sue notti sul molo di Lampedusa per accogliere i barconi, o i giovani napoletani accorsi ad aiutare i soccorritori di tante persone in difficoltà – loro sì sono eccezioni, anche se non completamente isolate. La regola è un’altra. La regola è quella compendiata nell’acronimo forgiato dagli Americani: Nimby, «non nel mio giardino». Fino a che i migranti vengono ospitati in centri che assomigliano a campi di concentramento, o vengono collocati in strutture di accoglienza gestite da organizzazioni del terzo settore, nulla da dire.
Ma se si profila l’ipotesi che – donne o uomini che siano – arrivino a due passi da casa mia, o (come nel caso di Goro o, più recentemente di Ficarolo) si insedino in una casa contigua al bar del paese, allora anche cittadini per altri aspetti pacifici e remissivi diventano inflessibili custodi del mondo in cui vivono. E’ successo in alcuni paesi del delta del Po. E’ accaduto ad Abano Terme e a Capalbio. Nella zona termale presso Padova si sono addirittura costituiti comitati permanenti per il no all’accoglienza. Anche in presenza di minori non accompagnati, di donne incinte, o di bambini, la risposta è la stessa: «non ce ne frega un c...». Almeno per una volta, smettiamola con la solita tiritera: bisogna capirli, hanno anche loro sacrosanti diritti, il governo e gli amministratori locali non sono all’altezza della situazione, ecc. Smettiamola non perché queste affermazioni non siano vere. Ma perché quella frase urlata in faccia al carabiniere è sintomo di qualcosa che non può essere confuso con una generica espressione di ribellione. Non è soltanto testimonianza di una esasperazione legittima, dovuta all’innegabile quanto macroscopica inadeguatezza della politica ad affrontare questa emergenza. E’ sintomo di qualcosa di molto più profondo, diffuso e allarmante. Se di fronte ad una richiesta di solidarietà si urla «non ce ne frega un c…», vuol dire che si sono dissolti i principi basilari sui quali è costruita una comunità. Quella frase urlata dice esattamente l’opposto del motto latino – nihil humani a me alienum puto – «non vi è nulla riguardante l’uomo che io consideri essermi estraneo». Al contrario, stabilisce che l’unica dimensione dell’umano di cui mi interessi è quella che riguarda me, i miei interessi, i miei bisogni, i miei appetiti. Qui è necessaria la massima attenzione, onde evitare di lasciarsi inghiottire da una visione moralistica. Che il punto di riferimento privilegiato a cui ciascuno di noi riconduce le sue azioni e il suo comportamento sia costituito dalle proprie necessità, è un dato incontestabile. Si potrebbe arrivare a dire che non solo si tratta di qualcosa di «naturale» (e cioè connesso a ciò che siamo per nascita), ma anche di qualcosa che non è di per sé moralmente censurabile. Immaginare un mondo popolato da individui solleciti del bene altrui, piuttosto che anzitutto mossi dall’amor sui, equivarrebbe a cancellare – o a deformare – ciò che ci insegna la storia plurimillenaria dell’umanità. Il punto dunque non è questo, con buona pace delle tante prediche fastidiosissime che abbiamo ascoltato in questi giorni. Il punto vero è un altro. Tenendo fermo che la stella fissa a cui guardo nel determinare le mie scelte sul piano pratico non può che essere il mio «naturale» interesse, dovrebbe essere altrettanto evidente che nella tutela dei miei bisogni rientra a pieno titolo, e con molta forza, il prendersi carico delle esigenze degli altri miei simili. Non per «bontà», appunto. Ma perché la mia stessa sopravvivenza è legata all’esistenza di una comunità, senza la quale da solo non potrei farcela. Ma non c’è bisogno di scomodare Thomas Hobbes per sapere che una comunità, o uno Stato, può reggersi solo se ciascuno degli individui contraenti del patto sociale rinuncia ad alcuni diritti «naturali», proprio allo scopo di beneficiare della propria sicurezza. Tutto ciò implica consequenzialmente che, proprio in vista del proprio egoismo, e non in contraddizione con esso, nessuno possa dire «non me ne frega un c…», perché al contrario ciò che accade agli altri è fondamentale precisamente per il suo proprio interesse. Nel momento in cui hanno eretto barricate contro l’arrivo di donne e bambini in cerca di protezione, i cittadini di Goro o di Abano hanno inconsapevolmente dimostrato che a loro «non frega un c…» di se stessi, prima ancora che di altri esseri umani innocenti.