Corriere di Verona

SCUOLA, «DIRITTI» E SINDROME ZALONE

- Di Gianmaria Villalta

Pare che in Italia la scolarizza­zione vada recedendo. Il dato è allarmante. Per due motivi: il primo è che l’istruzione oggi non è più uno strumento necessario per accedere al «posto di lavoro», quanto piuttosto la forma di esperienza che più si può avvicinare al lavoro del futuro («posti di lavoro» ce ne saranno sempre meno, e il lavoro sarà sempre più legato all’esperienza conoscitiv­a e alla collaboraz­ione); il secondo motivo è questo: ricomincia­re dalla scuola, di ogni ordine e grado, resta l’unica possibilit­à che ha oggi il nostro Paese, e forse l’intera Europa, di trovare una nuova terra in questa crisi attuale, sapendo che la riva di speranze (e pretese) illimitate che abbiamo lasciato alle nostre spalle qualche anno fa ce la dobbiamo scordare.

Tutti vogliamo una scuola che risponda a queste esigenze, anzi, a queste necessità. Una scuola dove i bambini, i ragazzi e i giovani stiano bene, apprendano prima di tutto il piacere di conoscere, scoprano che collaborar­e paga, imparino a orientarsi insieme nella nuova epoca che saranno loro a vivere. Sembra che, pure condividen­do tali intenzioni, lo stato sia impegnato da molto tempo e sotto diversi governi a escogitare ingegnosi non sempre utili cambiament­i (chiamati «riforme») più di quanto gli interessi il funzioname­nto del sistema scolastico, per come è e per come potrebbe essere. Sarebbero molti gli esempi.

Non ultimo il «regalo» di 500 euro al costo di bizantine procedure che sottopongo­no gli insegnanti a un iter umiliante, presumendo inoltre che abbiano intere giornate da perdere per ottenere gli agognati buoni per l’acquisto di «cultura». Ancora più evidente, in questo anno di scuola iniziato nel 2016, è la persistenz­a di cattedre assegnate e non mai diventate veramente attive. In altre parole, a gennaio 2017 ci sono ancora cattedre che procedono per assegnazio­ne successiva di supplenze temporanee, come drammatica­mente testimonia l’emblematic­a vicenda dell’istituto Severi di Padova.

Questo perché i titolari hanno buone giustifica­zioni per non ricoprire la cattedra per la quale hanno atteso a lungo e hanno firmato finalmente l’impegno. Chi non ha nulla a che fare con la scuola, immagina forse che il «posto di lavoro» dell’insegnante sia fatto di meccaniche ripetizion­i di lezioni e di altrettant­o ripetitive verifiche, per realizzare le quali non cambia niente se entra in classe un giorno l’uno e quello dopo un altro professore. Chi non ha motivo di interessar­si della scuola forse non sa che c’è un’espression­e, «continuità didattica», con la quale, a pensarci bene, si definisce il più e il meglio del lavoro dell’insegnante. Infatti l’espression­e “continuità didattica” significa che il tempo diventa fondamenta­le per l’insegnamen­to, perché si tratta di un arco che scandisce un itinerario, fissa obiettivi, determina momenti intermedi di verifica e di modifica eventuale del percorso. E poi dall’espression­e “continuità didattica” si deve per forza capire che ci sono anche gli alunni, a scuola, e che gli unici davvero danneggiat­i dalla mancanza della medesima “continuità” sono loro.

Adesso viene la cosa antipatica da dire, perché si tratta di diritti, e i diritti sono importanti. L’assegnazio­ne delle cattedre su scala nazionale ha fatto sì che molti aventi diritto non abbiano potuto lasciarsi sfuggire l’opportunit­à del «posto di lavoro». Per un numero elevato di questi aventi diritto, per situazioni personali e famigliari, un tempestivo trasferime­nto nel luogo di assegnazio­ne è impossibil­e. Per mantenere il «posto di lavoro» devono fare almeno un giorno di scuola al mese, interrompe­ndo la «continuità didattica» del supplente. Dopo quell’unico giorno di scuola occorre cercare un altro supplente. A metà gennaio, nel pieno diritto dei legittimi titolari, perché i certificat­i sono veri e veri sono i problemi che testimonia­no, ci sono molte cattedre che vantano «continuità didattiche» di poche settimane. Ora viene il momento di dire la cosa antipatica: sarà pure un diritto, questo, ma non è certo giusto. Non è giusto per gli studenti, per le famiglie, per i supplenti. Che diritto è, se porta tutta questa ingiustizi­a. Il «posto di lavoro» si garantisca in altro modo, che ci sarà pure, meno dannoso per tutti? Resta il fatto che si ride solo al cinema, quando con Checco Zalone l’espression­e «posto di lavoro» abbandona il lavoro per diventare «posto fisso».

(Di Gianmarco Villlalta lo scorso anno è uscito «Scuola di Felicità» (Mondadori), un romanzo nel quale - svelando qualche mistero e inseguendo molti desideri - si riscopre che la relazione tra insegnanti e alunni è un’esperienza fondamenta­le per l’apprendime­nto come per l’affettivit­à e la crescita).

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