Corriere di Verona

SCHIO, LA GIUSTIZIA «UMANA»

- Di Stefano Allievi

La storia dell’incontro tra Valentino Bortoloso e Anna Vescovi merita di prenderci più di qualche minuto di distratta lettura, per aprirci a una riflession­e più profonda. Lui, il partigiano Teppa, 94 anni, nel luglio del ’45 fu tra gli autori di un eccidio a Schio in cui morirono 54 persone, tra cui il podestà fascista Giulio Vescovi. Lei, Anna, figlia di Giulio, all’epoca aveva solo due anni, e incolpevol­e si è vista portare via il padre per sempre.

Settantadu­e anni dopo, per iniziativa di lei, hanno firmato, insieme, davanti al vescovo Beniamino Pizziol, un atto di riconcilia­zione che rimarrà ora negli archivi della curia di Vicenza. Non è solo una toccante storia personale, che ci mette a contatto con le traiettori­e del dolore, ma anche con il desiderio di riappacifi­cazione che spesso le accompagna, e che può tramutarsi in qualcosa di diverso dal rancore e dal desiderio di vendetta. E non è nemmeno solo un episodio che può farci utilmente riflettere sul bisogno che oggi tutti abbiamo di superare una memoria divisa, quella del Fascismo e della Resistenza, che per la generazion­e di chi l’ha vissuta è stata spesso una frattura indelebile, come lo sono tutte le guerre, e le guerre civili ancora di più. C’è molto da imparare sul piano umano e sul piano storico, da questa storia. Ma c’è da imparare qualcosa anche sul piano dell’amministra­zione della giustizia e del bisogno di riparazion­e: pilastri fondamenta­li della convivenza umana.

La complessa impalcatur­a della giustizia, come man mano si è costruita in occidente, prevede che di fronte a un atto di violenza, volontario ma anche accidental­e, come un omicidio stradale, intervenga un atto di giustizia formale e astratta: per opera di un ente terzo, lo stato, che attraverso una forma particolar­e di mediazione (non formalment­e richiesta dalle parti), sancisca la colpevolez­za di una persona e ne determini la pena. Il tutto, senza il coinvolgim­ento dei familiari della vittima, in automatico, per così dire. Questo meccanismo risponde al bisogno di ribadire la norma sociale, al di là della volontà delle parti, ripristina­ndola con la punizione del deviante. E, anche, impedire che si inneschi una spirale di vendetta tra le parti coinvolte, avocando in esclusiva allo stato la potestà di somministr­are la giustizia. Ma ha il difetto di non tenere in nessun conto la dimensione emotiva profonda, che con il sentimento di giustizia (che, appunto, è un sentimento) ha moltissimo a che fare. Ci priviamo, in sostanza, della possibilit­à di fare pace con noi stessi e con gli altri, spesso rimanendo prigionier­i di pulsioni irrisolte, di rancori, di vendette, che hanno anch’esse un costo individual­e e sociale. In molti casi, invece, un qualche contatto personale, e una qualche forma – diversa dalle attuali – di giustizia riparativa, gioverebbe (cosa che il nostro ordinament­o separa invece in partenza, prevedendo due percorsi diversi per la giustizia penale e per quella civile). Tanto più nei casi di guerre e rivoluzion­i: in cui il mettere in contatto vittime e colpevoli può giovare molto più di condanne a morte eseguite sulla pubblica piazza, come vorrebbe quella che alcuni chiamano giustizia popolare, e che assomiglia più propriamen­te alla vendetta e al linciaggio – come ha mostrato la Commission­e per la riconcilia­zione, in Sudafrica, dopo la caduta del regime di apartheid. Qualcosa di simile, ma staccato dai normali meccanismi della giustizia, si è sperimenta­to anche in Italia dopo le violenze degli anni di piombo, tra familiari delle vittime e brigatisti. Alcuni paesi (scandinavi e anglosasso­ni più di altri) stanno cominciand­o a sperimenta­re forme, naturalmen­te volontarie, di coinvolgim­ento delle parti, facendole incontrare e parlare – ciò che non sostituisc­e, ovviamente, il bisogno di giustizia in senso proprio, ma lo integra; come lo integra, anche nel nostro ordinament­o, un risarcimen­to – che tuttavia ha un significat­o diverso se deciso dal giudice o stabilito tra le parti, seppure all’interno di meccanismi che tutelano quella più debole. Si tratta insomma di introdurre meccanismi di umanizzazi­one della giustizia, che la renderebbe­ro oltre tutto più efficace. Valentino e Anna, con la loro storia, hanno il merito di farci riflettere anche su questo.

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