Biennale Arte, viaggio nel nuovo umanesimo
La curatrice Christine Macel anticipa «Viva Arte Viva». Il presidente Baratta: «Sarà un racconto epico»
Un viaggio attraverso nove padiglioni. Anzi: un racconto lungo nove capitoli. La descrive così Christine Macel la sua Biennale d’arte, la n.57, che resterà aperta dal 13 maggio fino al 26 novembre. Protagonisti, da 51 paesi diversi, 120 artisti di cui 103 presenti per la prima volta. A loro la curatrice francese ha chiesto 800 opere, 52 commissionate ex-novo, altre rigenerate dopo decenni dal debutto.
«Viva Arte Viva»: il titolo suona quasi da scioglilingua gioioso. La forza sta nell’umanesimo che la ispira, come sostiene Paolo Baratta, il presidente della Biennale: «Un umanesimo non focalizzato su un ideale artistico da inseguire, né tanto meno una celebrazione dell’uomo come essere capace di dominare ciò che lo circonda».
Tutt’altro: visti i tempi che corrono, «l’umanesimo di questa mostra parla dell’atto artistico come atto di resistenza, di liberazione, di generosità». Allora il motto, quel «Viva Arte Viva», sembra assumere anche una piega di dolore, di sforzo, di supplica.
Lungo quella pista drammaturgica proveranno a correre anche i padiglioni nazionali, arrivati a 85 quest’anno, di cui 4 di Paesi presenti a Venezia per la prima volta (Antigua e Barbuda, Nigeria, Kazakhstan, Kiribati). Ma soprattutto si dispiegherà tutto il progetto della curatrice, classe 1969, dal 2000 a capo del team d’arte contemporanea del Centro Pompidou di Parigi.
Quale viaggio-narrazione ha voluto organizzare dunque Macel tra Giardini e Arsenale? Sarà un unico coro da attraversare in nove «Trans-padiglioni», come li definisce: «un racconto discorsivo e talvolta paradossale, con deviazioni che riflettono la complessità del mondo, la molteplicità delle posizioni, la varietà delle pratiche».
«Un poema epico», lo chiama Baratta. Con un prologo: il «Padiglione degli artisti e dei libri», dove va in scena l’atelier, luogo insieme di ozio e di lavoro frenetico. E con un epilogo, ovviamente: il «Padiglione del tempo e dell’infinito», il recupero dell’«approccio metafisico dell’arte». In mezzo entreremo e usciremo dai padiglioni delle Gioie e delle Paure, dello Spazio comune, della Terra, delle Tradizioni, degli Sciamani, quello Dionisiaco e quello dei Colori.
Dai linguaggi più tradizionali alle espressioni più immateriali. Qualche esempio? Il danese Olafur Eliasson ricreerà un workshop permanente invitando immigrati e studenti; lo statunitense Dawn Kaspar traslocherà direttamente in Biennale ricostruendo il proprio atelier. E ancora: la brasiliana Erika Verzutti modellerà un pet-cemetery al Giardino delle Vergini, mentre il suo connazionale Ernesto Neto farà una travolgente processione. La decana degli artisti invitati, Anna Halprin, classe 1920, ricreerà la «Danza del planetario» per curare i traumi e le ferite sociali.
E gli italiani? Sono sei, di cui una scomparsa nel 2013 all’età di 94 anni, la straordinaria Maria Lai, che torna alla Biennale con la sua caparbia tensione a ricucire il mondo. Gli altri invitati sono Riccardo Guarneri, Giorgio Griffa, Michele Ciacciofera e Salvatore Arancio.
Ognuno dei nove trans-padiglioni raccoglie «famiglie di artisti», riunite per affinità e genealogie di indagini e di inquietudini. In gran parte sono quasi sconosciuti al grande pubblico. Non è tempo di artisti-star né di artisti-eroi. Ma di testimoni e resistenti, si diceva. Ecco spiegata la scelta di portare alla ribalta così tanti nomi per la prima volta: «Non parlo solo di giovani ed emergenti - spiega Macel - Non seguo la frenesia del nuovo. Penso ad artisti dimenticati o schivi per loro natura, artisti che hanno fallito l’incontro con il clamore e la fama, o che non hanno potuto o voluto essere presenti prima».
Da qui la richiesta a tutti gli artisti a mandare video-presentazioni, auto-racconti che da oggi saranno visibili sul sito della Biennale (www.labiennale.org).
Durante la kermesse invece Macel innesta una batteria di 16 eventi performativi e una serie di iniziative speciali per immergersi meglio nel viaggio.
Ad esempio tutti i venerdì e i sabato e per tutta la durata dell’esposizione un artista incontrerà il pubblico a pranzo, coinvolgendo i presenti a una «Tavola aperta» davanti al Padiglione Centrale ai Giardini e le Sale d’armi all’Arsenale.
Due infine i progetti speciali. Il Padiglione delle Arti Applicate torna sempre in collaborazione con il Victoria and Albert Museum di Londra, affidato quest’anno al creatore cubano Jorge Pardo. Si rinnova anche l’esperienza con il Teatro La Fenice di lasciare a un artista la messa in scena di un’opera. Dopo Mariko Mori e poi Kara Walker ora sarà la volta del francese Philippe Parreno: dal 29 settembre al 7 ottobre andrà in scena infatti la sua versione di Cefalo e Prori al Teatro Malibran.
Christine Macel sembra voler consegnarci un’esposizione estremamente calibrata. Non ci saranno la visionarietà e l’azzardo immaginifico di Massimiliano Gioni né l’estetica dell’arte come scienza politica di Okwui Enwezor. La Biennale di Christine Macel promette di essere pacata e a tono.