COME TORNARE ATTRATTIVI
L’anno scorso oltre 10 mila giovani del Nordest sono emigrati all’estero, duemila dei quali laureati, tutti comunque nel pieno dell’attività lavorativa: nel 2015 erano stati in totale 8 mila, la situazione si è aggravata in appena dodici mesi. Scarsi investimenti esteri. Il Nordest è l’area del Paese dove si è registrato il minor numero di operazioni di merger and acquisition, cioè di compravendita di imprese, 241 dal 2013 al 2016: sul totale delle transazioni, il peso del Nordest si ferma al 15 per cento, lontanissimo dal 50 per cento del Nordovest. Sono due facce della stessa medaglia. E indicano un problema: questo territorio ha urgente bisogno di aumentare la propria attrattività. Sia nei confronti della meglio gioventù, nostrana o internazionale senza distinzione, sia riguardo ai capitali di rischio, la benzina della competizione planetaria. Tra i dati contenuti nel Rapporto 2017 della Fondazione Nordest quelli che mettono il dito nella piaga dell’attrattività sono senza dubbio i più allarmanti. Certo, ci si può consolare con i segnali positivi che continuano ad arrivare dall’export, dalla ripresa dell’occupazione e dei consumi. Ma se si vuole tornare a correre al ritmo della Baviera, del Baden-Württemberg o del Rhône-Alpes, è lì che bisogna intervenire, sul recupero di attrattività. Magari cominciando a guardare con attenzione le mosse della Milano del dopo Expo. Più facile a dirsi che a farsi, ovvio. Giusto per cominciare, però, si potrebbe smetterla di ripetere che tutti i problemi sono legati alle carenze infrastrutturali. La verità è che ci vuole una vision: bisogna mettersi insieme, istituzioni, università, sindacati e associazioni di categoria, e stabilire qualche linea di politica economica. Solo gli investimenti, poi, chiamano altri investimenti. Purtroppo, a Nordest, negli otto anni di Grande Crisi, gli investimenti fissi lordi sono crollati del 25 per cento e non basta di sicuro il più 2,3 per cento del 2016 per recuperare il terreno perduto. Insomma, occorre assolutamente (ri)attivare il circolo virtuoso dell’eccellenza, il migliore richiamo tanto per i talenti quanto per le risorse finanziarie. Il sogno è che una Philip Morris decida di spendere i prossimi 500 milioni lungo la Serenissima anziché nel Bolognese. E che si smetta di gridare al lupo al lupo ogni volta che un’azienda italiana passa in mani straniere. Quello che conta è la valorizzazione del know-how e, soprattutto, la conservazione dei posti di lavoro. Il modello cui guardare è Bottega Veneta: i francesi di Kering, in una quindicina d’anni, l’hanno trasformata in un colosso che punta ai 2 miliardi di fatturato. Quando si dice essere attrattivi.