«Territorio e cervelli, il Nordest deve diventare più attrattivo»
Lo studio della Fondazione ieri a Vicenza: il Pil cresce dell’1%, ma aumenta la forbice tra le imprese. Rocca (Assolombarda): «Vi manca un disegno». Nel 2016 oltre 10mila giovani in fuga
Dal calabrone alla forbice. La trasformazione è radicale, anche solo nelle metafore per descriverlo, il Nordest, area deviante per eccellenza nell’economia e nella società. E sei ai tempi d’oro il calabrone, nel rapporto annuale della Fondazione Nordest, rendeva l’idea di un volo che c’era pur se rimaneva difficile da spiegare, la forbice deve farlo oggi, dopo la grande crisi, per un’economia sempre più polarizzata tra aziende che accelerano e che faticano. E che deve fare i conti - tra Brexit, Trump e minacce sulla tenuta dell’euro - con la crisi del commercio mondiale, che aveva salvato il Nordest con l’export. Senza contare, sul piano sociale, una società che invecchia in modo drammatico, che non dà opportunità a giovani che fuggono all’estero e in cui la coesione sociale ha ricevuto un colpo mortale dall’implosione delle banche. Così è urgente per uscirne, creare un territorio «più attrattivo per cervelli e imprese», come dice il presidente della Fondazione, Fancesco Peghin. Perché, piaccia o no, gli investimenti e le acquisizioni estere restano fondamentali. E poi serve «un disegno strategico sul territorio, condiviso da politica e imprese», che indichi una rotta per il futuro, un ruolo nella «Metropoli Padana» che va da Torino a Trieste.
Perché il presente da solo non basta più. Il Rapporto annuale 2017 della Fondazione Nordest, presentato ieri a Vicenza in Confindustria, basato sui numeri 2016, lo rende evidente. «Avanti piano. Il Nordest ha ancora numeri positivi è la ripresa, sia pur timida, c’è - dice il direttore scientifico della Fondazione Nordest, Stefano Micelli, all’ultima relazione del suo mandato quadriennale -. Ma c’è un problema di qualità della crescita, che mette in discussione il nostro genius loci». Insomma, la crescita dell’occupazione degli ultimi due anni, sotto la spinta del Jobs Act, il calo della disoccupazione al 6,7%, e la crescita, sia pur solo di un +1,7%, dei consumi, tornati ai livelli 2007, «nel bel mezzo delle difficoltà delle banche non possono essere dati per scontati», dice Micelli. Così come non lo era la ripresa degli investimenti, che erano andati bruciati per il 25% durante la crisi.
Eppure quel +1% del Pil nel 2016 non basta, a un Nordest ormai risucchiato nella media nazionale. E che si trova con l’esplosione della tema demografico: i residenti che arretrano sotto i 7,2 milioni, la natalità che crolla a 1,38 figli per donna in
Stefano Micelli Avanti piano, c’è un problema di qualità della crescita, che mette in discussione il nostro genius loci
Veneto, gli over 65 che, tra 2002 e 2016, passano da 136 a 159 ogni cento under 14, «in un cambiamento rapido e preoccupante». Come lo sono i 10.600 giovani tra i 25 e 34 anni partiti nel 2016 per l’estero, tra cui duemila laureati. «È come se ogni anno sparisse Altavilla Vicentina, o a Mogliano le persone in età da lavoro - aggiunge Micelli - E il trend è in crescita: due anni fa la perdita era a ottomila».
Servono alcune provocazioni. Sulla manifattura 4.0, «un tormentone, d’accordo, ma dove la crescita dei ricavi del 20% delle aziende che le usano è visibile nei settori orafo, della casa e della moda». Ma anche su quel che ha da raccontare «in termini di lezione ed estendibilità il successo clamoroso dell’agroalimentare e in particolare delle esportazioni del comparto del vino - come dice sempre Micelli - cresciute dell’87% tra 2007 e 2015, tenendo a bordo anche i piccoli nell’espansione. Perché si è riusciti a raccontare una cultura del consumo».
E poi c’è la capacità di essere attrattivi verso l’estero. «Da soli non ce la facciamo - taglia corto il direttore scientifico -. Servono partnership con investitori internazionali che devono trovare il Nordest interessante anche da un punto di vista culturale». Moltiplicando esempi come l’orto botanico a Padova o il Museo della Scienza a Trento, ma anche investendo nelle università, «parti fondamentali dei nuovi ecosistemi». Per aumentare quell’ancora deludente 15% di operazioni di fusioni e acquisizioni estere a Nordest sul totale nazionale tra 2013 e ‘16 (ma almeno raddoppiate), rispetto al 48% a Nordovest, il 20% in centro Italia e il 17% al Sud.
Antidoti, tutti, a una crescita per poche imprese, in cui si allarga il divario tra le migliori, che accrescono i guadagni sul capitale investito, e quelle che arrancano. «E dove se prendiamo le prime 500 imprese per dimensioni in ogni provincia aggiunge Nicola Anzivino, partner di Pwc - c’è la costante delle prime cento che fanno meglio delle restanti 400. E la crescita interna non basta più a chi deve affacciarsi all’estero». Antidoti per recuperare un ruolo nella Metropoli Padana, come la definisce Micelli: «Il Nordest ha vinto nel senso che ormai è scomparso il capitalismo delle grandi multinazionali del Nordovest. La base, per tutti, è diventata la media impresa internazionale. Ma questo ci dà nuove responsabilità».
E qui il Nordest deve fare un passo storico. «Io qui vedo più energia che in Lombardia: lo si vede nell’export cresciuto molto di più rispetto al 2008 - dice in un paragone ricco di spunti il presidente di Assolombarda, Gianfelice Rocca -. Ma vedo una società che ha perso più fiducia. Il Nordest ha tutte la caratteristiche per farcela. Ma deve darsi un piano strategico coinvolgendo tutte le forze. Tracciare una rotta per superare gelosie e divisioni, e ritrovare un contatto con la politica altrimenti ripiegata solo sulla soluzione dei problemi quotidiani. Riprendendo il metodo usato a Milano. È il desiderio di giocare in Serie A che fa la differenza. E, visto da Milano, abbiamo bisogno di un’alleanza con il Nordest, per tenere insieme questo Paese».