DALL’ECCEZIONE AL SISTEMA
Ci sono notizie che un giornale non vorrebbe mai dare. Nella quotidianità di chi scrive catastrofi e attentati terroristici a parte - forse la morte di un bambino è il momento più doloroso. Ecco perché la notizia dell’assunzione di una mamma al nono mese di gravidanza in un mercato del lavoro dove il parto viene solitamente visto come l’arrivo della peste bubbonica, in chi la pubblica procura un piacere e un’emozione individuali che sanno di ristoro e fanno presto a diventare condivisi. Al punto da essere al centro di tutti i telegiornali e raggiungere nel web con una narrazione in direzione ostinata e contraria alla frivolezza e all’orridume che spesso circola - contatti e commenti al solito dedicati alle star.
Nella storia di Martina, la mamma che a giorni darà alla luce una bambina, e dell’azienda di Mestre che l’ha fortemente voluta a prescindere, c’è tanto del nostro umanesimo, c’è il senso di giustizia, c’è intelligenza sociale e lungimiranza aziendale (mamma Martina è brava), c’è la quadratura di un cerchio che non si chiude quasi mai, c’è la tensione all’armonia in un mondo fatto spesso di disarmonie e diritti calpestati, di sotterfugi e ipocrisie. Ma se una notizia del genere ci riconcilia con il nostro mestiere e ci fa sentire tutti (o quasi) un po’ meglio, siccome l’ipocrisia non ci piace dobbiamo dire che esiste anche la sua parte «scura». Perché questa storia è la storia di un’eccezione, a sua volta «partorita» da un paio di imprenditori di un piccola società con una struttura flessibile per giunta coinvolti emotivamente visto che uno dei due soci in passato ha visto negare il lavoro a sua moglie, incinta e per questo rifiutata.
La straordinarietà del gesto non si tocca, la sua forza «provocatoria» aprirà le anime e forse qualche porta in più. Ma il punto è che in questo paese non dobbiamo aver bisogno di eccezioni, per quanto virtuose. Un paese, peraltro, dove chi non si comporta alla stessa maniera non necessariamente è un diavolo anche se a volte ci arriva vicino. Se la legislazione italiana in fatto di tutela della maternità è ampia, il suo rispetto infatti non è un automatismo. Di fatto, le norme la «tutelano» a valle, mentre lo scoglio è a monte. Se un’ impiegata o un’operaia o una manager già contrattualizzate restano incinte, l’azienda (privata, il pubblico è un altro discorso: paghiamo tutti noi) non può che applicare le regole e adeguarsi.
Eventualmente avrà modo di «regolare i conti» al ritorno al lavoro della mamma, che in molti casi diventa un «problema» (spesso oggettivo, non nascondiamolo) e viene in vario modo penalizzata: dalla negazione del part time, al ridimensionamento delle mansioni, fino al blocco della carriera per chi ricopre incarichi di «quadro» o apicali. Diversamente, è a monte che la «tutela» non funziona. Capita infatti in molti casi che il colloquio di lavoro si trasformi in una sorta di interrogatorio (è sposata? ha il fidanzato? farà figli?) dopo il quale la candidata viene scartata se odora di propositi di maternità. Un comportamento odioso per chi ne è vittima e nocivo e miope per la società, poiché mettere questi paletti alla formazione di una famiglia «tradizionale» (quindi con figli) ha conseguenze dirompenti. Un figlio che nasce diventerà un consumatore, quindi un produttore e un piccolo ma fondamentale tassello nella composizione dell’assetto demografico utile perché una nazione sopravviva. E l’Italia, dal punto di vista demografico, è uno degli ultimi paesi del pianeta (in Europa assieme alla Germania, nel mondo con il Giappone). Un attacco, quindi, non solo alle donne, ma a tutti noi. Che dalle donne nasciamo.
Ma, fuor di ipocrisia, se vogliamo invertire la tendenza non possiamo lasciare sole le imprese. Se un richiamo al rispetto dei diritti e delle responsabilità «sistemiche» resta in capo agli imprenditori (diverse aziende, è da dire, soprattutto qui a Nordest, hanno avviato modelli di welfare invidiabili), ci sono altri soggetti che devono fare la loro parte. A cominciare dal parlamento. Non basta legiferare sulle tutele e lanciarsi nella retorica della famiglia: occorre individuare forme di incentivazione per gli imprenditori perché assumano più donnemamme. Paghiamo, come detto, già per il pubblico. Facciamolo anche per il privato. Ultimi ma non ultimi restiamo noi: uomini (e donne) che con le donne lavoriamo. Consentire ad una neo-mamma l’inserimento o il riposizionamento nel contesto del lavoro, presuppone la disponibilità ad una quota parte di «produttività» in nome dei principi in cui crediamo e del «sistema» in cui viviamo. I figli, tutti i figli, anche quelli degli altri, sono figli nostri. Della nostra società.