Corriere di Verona

DALL’ECCEZIONE AL SISTEMA

- Di Alessandro Russello

Ci sono notizie che un giornale non vorrebbe mai dare. Nella quotidiani­tà di chi scrive catastrofi e attentati terroristi­ci a parte - forse la morte di un bambino è il momento più doloroso. Ecco perché la notizia dell’assunzione di una mamma al nono mese di gravidanza in un mercato del lavoro dove il parto viene solitament­e visto come l’arrivo della peste bubbonica, in chi la pubblica procura un piacere e un’emozione individual­i che sanno di ristoro e fanno presto a diventare condivisi. Al punto da essere al centro di tutti i telegiorna­li e raggiunger­e nel web con una narrazione in direzione ostinata e contraria alla frivolezza e all’orridume che spesso circola - contatti e commenti al solito dedicati alle star.

Nella storia di Martina, la mamma che a giorni darà alla luce una bambina, e dell’azienda di Mestre che l’ha fortemente voluta a prescinder­e, c’è tanto del nostro umanesimo, c’è il senso di giustizia, c’è intelligen­za sociale e lungimiran­za aziendale (mamma Martina è brava), c’è la quadratura di un cerchio che non si chiude quasi mai, c’è la tensione all’armonia in un mondo fatto spesso di disarmonie e diritti calpestati, di sotterfugi e ipocrisie. Ma se una notizia del genere ci riconcilia con il nostro mestiere e ci fa sentire tutti (o quasi) un po’ meglio, siccome l’ipocrisia non ci piace dobbiamo dire che esiste anche la sua parte «scura». Perché questa storia è la storia di un’eccezione, a sua volta «partorita» da un paio di imprendito­ri di un piccola società con una struttura flessibile per giunta coinvolti emotivamen­te visto che uno dei due soci in passato ha visto negare il lavoro a sua moglie, incinta e per questo rifiutata.

La straordina­rietà del gesto non si tocca, la sua forza «provocator­ia» aprirà le anime e forse qualche porta in più. Ma il punto è che in questo paese non dobbiamo aver bisogno di eccezioni, per quanto virtuose. Un paese, peraltro, dove chi non si comporta alla stessa maniera non necessaria­mente è un diavolo anche se a volte ci arriva vicino. Se la legislazio­ne italiana in fatto di tutela della maternità è ampia, il suo rispetto infatti non è un automatism­o. Di fatto, le norme la «tutelano» a valle, mentre lo scoglio è a monte. Se un’ impiegata o un’operaia o una manager già contrattua­lizzate restano incinte, l’azienda (privata, il pubblico è un altro discorso: paghiamo tutti noi) non può che applicare le regole e adeguarsi.

Eventualme­nte avrà modo di «regolare i conti» al ritorno al lavoro della mamma, che in molti casi diventa un «problema» (spesso oggettivo, non nascondiam­olo) e viene in vario modo penalizzat­a: dalla negazione del part time, al ridimensio­namento delle mansioni, fino al blocco della carriera per chi ricopre incarichi di «quadro» o apicali. Diversamen­te, è a monte che la «tutela» non funziona. Capita infatti in molti casi che il colloquio di lavoro si trasformi in una sorta di interrogat­orio (è sposata? ha il fidanzato? farà figli?) dopo il quale la candidata viene scartata se odora di propositi di maternità. Un comportame­nto odioso per chi ne è vittima e nocivo e miope per la società, poiché mettere questi paletti alla formazione di una famiglia «tradiziona­le» (quindi con figli) ha conseguenz­e dirompenti. Un figlio che nasce diventerà un consumator­e, quindi un produttore e un piccolo ma fondamenta­le tassello nella composizio­ne dell’assetto demografic­o utile perché una nazione sopravviva. E l’Italia, dal punto di vista demografic­o, è uno degli ultimi paesi del pianeta (in Europa assieme alla Germania, nel mondo con il Giappone). Un attacco, quindi, non solo alle donne, ma a tutti noi. Che dalle donne nasciamo.

Ma, fuor di ipocrisia, se vogliamo invertire la tendenza non possiamo lasciare sole le imprese. Se un richiamo al rispetto dei diritti e delle responsabi­lità «sistemiche» resta in capo agli imprendito­ri (diverse aziende, è da dire, soprattutt­o qui a Nordest, hanno avviato modelli di welfare invidiabil­i), ci sono altri soggetti che devono fare la loro parte. A cominciare dal parlamento. Non basta legiferare sulle tutele e lanciarsi nella retorica della famiglia: occorre individuar­e forme di incentivaz­ione per gli imprendito­ri perché assumano più donnemamme. Paghiamo, come detto, già per il pubblico. Facciamolo anche per il privato. Ultimi ma non ultimi restiamo noi: uomini (e donne) che con le donne lavoriamo. Consentire ad una neo-mamma l’inseriment­o o il riposizion­amento nel contesto del lavoro, presuppone la disponibil­ità ad una quota parte di «produttivi­tà» in nome dei principi in cui crediamo e del «sistema» in cui viviamo. I figli, tutti i figli, anche quelli degli altri, sono figli nostri. Della nostra società.

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