La metà delle dimissionarie non sa dove lasciare i figli
Allarme ministeriale nel Rapporto sulle pari opportunità: in Veneto la mancanza di nido e nonni induce 4 mamme al giorno a dimettersi
Una donna su due che si dimette dal lavoro lo fa perché non sa a chi lasciare suo figlio. A dirlo il Rapporto sull’occupazione maschile e femminile, che contiene gli allarmanti dati per il Veneto. «Il welfare aziendale? Le piccole imprese non ce la fanno».
Se un neo-papà si dimette, nell’80% delle circostanze sta per cambiare impiego. Ma se è una neo-mamma a rescindere il contratto, in un caso su due lo fa perché non sa a chi lasciare suo figlio. Rinunciare allo stipendio per l’impossibilità di conciliare la vita professionale con quella familiare: mediamente in Veneto ogni giorno succede ad oltre quattro donne, un numero che la dice lunga su quanto sia ancora in salita la strada dell’uguaglianza di genere, come
emerge dal nuovo Rapporto sull’occupazione maschile e
femminile, che contiene i dati raccolti dalla Direzione interregionale del lavoro di Venezia e che sarà illustrato in Regione il prossimo 21 marzo.
A presentare la ricerca con Elena Donazzan, assessore regionale al Lavoro e alle Pari Opportunità, sarà Sandra Miotto, consigliera regionale di Parità, che osserva: «La crisi di alcuni comparti e la tenuta di altri, le ancora scarse politiche per la conciliazione dei tempi tra famiglia e lavoro, il conseguente abbandono prematuro della carriera sono tutti elementi che pongono un allarme: senza una profonda innovazione sociale e culturale, che coinvolga in primis le politiche di genere, il futuro potrebbe non garantire le necessarie risposte ad un mercato del lavoro nel pieno di un cambiamento epocale».
La preoccupazione nasce anche dagli impietosi numeri rilevati dalla Direzione veneziana del ministero del Lavoro, chiamata a contrastare le discriminazioni pure nell’ambito della procedura di convalida delle dimissioni delle lavoratrici e dei lavoratori con figli di età inferiore ai 3 anni. In sostanza a queste madri e a questi padri era stato chiesto il motivo dei rispettivi recessi, che complessivamente nel 2015 (ultimo anno disponibile) hanno toccato quota 4.256, di cui 3.356 per le femmine e 900 per i maschi, fra dimissioni volontarie e risoluzioni consensuali, allo scopo di accertare che si fosse trattato di una libera decisione e di informare le persone sulle tutele previste dalla normativa.
Ebbene da questo monitoraggio è emerso che la prima causa per gli uomini è il trasferimento ad un’altra impresa (755 casi), mentre per le donne è il desiderio di cura della prole in maniera esclusiva (675). Ma se questa può essere considerata una libera scelta, ben diverso è il tenore delle motivazioni addotte da metà (1.619) delle mamme interpellate, come sottolinea Stefano Marconi, direttore della Direzione interregionale del lavoro: «Si registra un elevato numero di casi di recesso di lavoratrici madri dovuti alla incompatibilità tra occupazione lavorativa e assistenza al neonato». Nel dettaglio: 582 non hanno trovato posto al nido, 421 non possono contare sul supporto dei parenti, 128 lamentano un’elevata incidenza dei costi di accudimento del bimbo ad esempio per l’asilo o per la baby-sitter, 488 non hanno ottenuto il part-time, un orario più flessibile o comunque la modifica dei turni di lavoro. Tutti problemi che invece pesano solo per una manciata di papà (appena 43, cioè poco più del 4%).
Commenta la consigliera Miotto: «Il problema della mancata conciliazione è legato alla carenza diservizi di prossimità. Fra le grandi aziende si trovano pregevoli esempi di welfare, ma tante piccole imprese non sono in grado di sostenere l’asilo nido o formule di flessibilità. Per questo insieme alla commissione Pari Opportunità mi sono riproposta di sperimentare, in un Comune veneto che andremo a scegliere, un progetto di sostegno alle mamme lavoratrici, con l’obiettivo di estenderlo anche ad altre aree del territorio regionale».
La necessità trapela anche da un’altra indicazione proveniente dal Rapporto: «In Veneto, tra le donne che lavorano a tempo ridotto, il 35% lo sceglie soprattutto per prendersi cura dei figli o di altri familiari, anche per sopperire all’inadeguatezza del sistema di welfare, a causa di servizi carenti o eccessivamente costosi, come denunciato dal 26% di loro, più che a livello medio nazionale (19%). È alla donna dunque che si richiede più spesso di accettare i compromessi necessari per adattare la sua attività lavorativa alle esigenze della famiglia». A costo di arrivare a rinunciare all’impiego.