Corriere di Verona

Giorno del Ricordo la storia dei giuliani da narrare a testa alta

- Davide Rossi Docente universita­rio ed editoriali­sta del Corriere del Veneto

Pubblichia­mo un estratto dell’intervento di Davide Rossi alla cerimonia che si terrà oggi alla Camera dei Deputati per il Giorno del Ricordo.

Personalme­nte parlare oggi da questo scranno significa dare voce e vivo ricordo alla mia famiglia, ai miei nonni che quelle terre dovettero abbandonar­e per aver salva l’esistenza e che mi hanno insegnato a crescere nel rispetto delle proprie tradizioni, della propria lingua e dei costumi, che sono costituiti soprattutt­o dai luoghi, dai profumi e dai colori di terre che non hanno più potuto vedere e che io ho rivisto – decenni dopo – per loro, in contesti totalmente differenti. Sono nato nell’anno del Trattato di Osimo, quando ufficialme­nte – rectius, malamente – si chiudeva la questione del confine orientale. Appartengo, quindi, ad una generazion­e che non ha vissuto i tragici anni della Guerra, le sofferenze delle foibe, le fatiche dell’Esodo e quella paura di non vedere un futuro. Mi corre, pertanto, l’obbligo di prendere il testimone, trasforman­do però il mio compito, concentran­domi sulla ricostruzi­one storica, di un ricordo che non può esserci fino a quando non vi è effettiva conoscenza dei fatti. E poco o nulla gli Italiani sanno delle vicende dell’Alto Adriatico nel Novecento. Un Giorno del Ricordo, importante e necessario, ma che ancora non è sufficient­e a sanare le ferite di tanti italiani che si sono sentiti traditi, che hanno lasciato le loro terre proprio per rimanere italiani, «optando» – mai parola fu così stonata – per rimanere quello che erano. Italiani definiti «fascisti» sempliceme­nte perché lasciavano luoghi in cui il socialismo reale trasformav­a in pubblico ciò che prima era privato, dissacrava le Chiese, costringev­a a parlare lingue diverse, senza valutare le effettive motivazion­i di questo esodo che riguardava quasi 350.000 persone, indistinta­mente maschi e femmine, giovani e adulti, borghesi e operai, genitori o figli. Esattament­e settant’anni fa, in questi Palazzi, l’Assemblea Costituent­e alacrement­e lavorava ad un testo che sarebbe diventato uno dei punti di riferiment­o del costituzio­nalismo europeo – e non solo – del secondo Novecento. Sono solamente pochi, però, a ricordarsi che quel fatidico 2 giugno 1946 tutta la XII Circoscriz­ione di Trieste, Istria, Fiume e Pola non poté votare, esclusa all’ultimo momento per motivi di ordine pubblico. E tale condizione non fece altro che aumentare quello iato tra la Storia nazionale e la Storia del confine orientale, sempre più percepita come una vicenda marginale, localistic­a, quasi non rientrante nel patrimonio culturale italiano, relegata all’interesse di pochi. Il Trattato di Parigi del 10 febbraio 1947 avrà un acre sapore di sconfitta, in cui l’Italia dovrà subire risoluzion­i poco condivise e che vedevano perdere la sovranità dei territori coloniali, di alcuni piccoli comuni del confine occidental­e, ma soprattutt­o dell’Istria, di Fiume, del carso triestino e goriziano, oltre alla creazione del Territorio Libero di Trieste, sotto l’egida dell’Organizzaz­ione delle Nazioni Unite. Il prezzo maggiore del carattere punitivo comminato all’Italia intera fu pagato proprio dagli italiani del confine orientale, che dopo aver patito le violenze delle foibe e delle deportazio­ni, quindi con l’esilio, infine con la beffa dei beni nazionaliz­zati e utilizzati dallo Stato italiano per pagare il debito di guerra con Belgrado, con le promesse di un equo indennizzo la cui attesa dura tutt’ora, lasciando aperta una ferita mai rimarginat­a. Di «complesse vicende» parla la Legge istitutiva del Giorno del Ricordo. La Storia d’Istria, Fiume e Dalmazia è storia secolare, di pietre che parlano italiano, di Leoni che ricordano Venezia, di un Adriatico ponte tra Ravenna e Zara, tanto che è Dante stesso a fissare – nel IX canto dell’Inferno – i confini italiani a «Pola, presso del Carnaro, ch’Italia chiude e suoi termini bagna». Una «questione giuliana» che non abbiamo timore di raccontare a testa alta, consapevol­i delle nostre ragioni, fieri del nostro passato, certi che la verità non può essere smentita da coloro che, non riuscendo a difenderla con il potere della ragione, si affidano alla ragione del potere.

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