La scelta sbagliata fra accoglienza e respingimento
Da qualche tempo, nel dibattito in corso sull’emigrazione, si è imposta una distinzione, sostanzialmente accolta senza rilevanti differenze. Da un lato vi sarebbero i «rifugiati» o i profughi, ai quali i trattati internazionali (già a partire dalla Convenzione di Ginevra del 1951) riconoscono il diritto di asilo. Dall’altro lato si collocano i cosiddetti «migranti economici», esuli dai loro paesi perché spinti dal tentativo di migliorare il loro livello di vita. La dicotomia ora enunciata non fa che riprendere (senza peraltro approfondirne il significato originario), la cosiddetta push-pull theory, elaborata dal demografo di origini ungheresi Egon Kunz. Con una differenza fondamentale. Mentre lo schema proposto dallo studioso corrispondeva ad un puro intento classificatorio, la distinzione adottata dall’Unione Europea trasforma una polarità descrittiva in un valutazione prescrittiva. Suscitando un problema al quale finora non è stata riservata la dovuta attenzione e che può essere formulata nei termini seguenti. Per quale motivo, razionalmente definibile, una persona che cerca di fuggire dalla prospettiva statisticamente assai probabile di morire di fame deve essere considerata meno degna di aiuto rispetto a chi tenta di sottrarsi ai pericoli della guerra? Quale più stringente obbligo sul piano dell’accoglienza può derivare quando si è in presenza di comportamenti che obbediscono in ogni caso all’esigenza di tutelare la propria incolumità? Per dirla in termini più rozzi, ma anche più espliciti: perché chi rischia di morire per fame non merita lo stesso trattamento di chi rischia di morire a seguito di bombardamenti? Nel rispondere agli interrogativi ora formulati è bene tenere presente che la radicalizzazione delle differenze fra le due tipologie di migranti non ha condotto semplicemente a quella che si potrebbe chiamare una «graduatoria» fra coloro che abbandonano il loro paese, tale per cui i rifugiati sono soltanto favoriti, rispetto agli «economici». Perché invece ciò che è accaduto è che ai primi viene riconosciuto un diritto, mentre i secondi giungono ad essere stigmatizzati come veri e propri delinquenti. Altro sarebbe, infatti, concedere ai richiedenti asilo una sorta di diritto di precedenza (per quanto anch’esso per molti aspetti discutibile); tutt’altra cosa è riservare agli uni l’accoglienza e agli altri il respingimento.
Tirando le somme del percorso fin qui abbozzato risultano alcune conclusioni per molti aspetti intuitive. Il tentativo in atto in molti paesi europei, in larga misura legittimato dalle direttive della Ue, di governare il fenomeno migratorio applicando in forma prescrittiva lo schema binario push-pull come criterio di inclusione o esclusione, è in realtà privo di ogni giustificazione, non solo dal punto di vista etico, ma anche sotto il profilo scientifico e giuridico. Appurata l’inconsistenza della dicotomia assunta come sistema di riferimento concettuale, ciò che emerge è il tentativo di conferire legittimità a una molteplicità di prassi discrezionalmente stabilite e spesso arbitrariamente applicate. Più ancora: ciò che emerge è la miseria culturale di un’Europa incapace di reggere l’impatto del fenomeno migratorio dal punto di vista psicologico e intellettuale, prima ancora che sul piano strettamente politico e normativo. La distinzione fra profughi ed «economici» si manifesta insomma per quello che è: un maldestro e inconcludente tentativo di mascherare una radicale inadeguatezza, teorica e politica, trasformando in norma discriminante un banale schema classificatorio, inidoneo a conferire legittimità a scelte e comportamenti ondivaghi, dettati dalla necessità di far fronte a un’emergenza soverchiante.