Corriere di Verona

Le aspettativ­e e il prestigio «Sbagliato demonizzar­e le famiglie che vogliono il meglio per i loro figli»

- A.Pe.

«Quello di Zushi è un caso particolar­e, perché la ristorazio­ne è uno dei settori che tirano di più nella crisi, ma capisco che molti giovani possano preferire modalità di ingaggio più precarie come i voucher o il nero, poiché non si percepisco­no come baristi e vogliono tenersi le mani libere». Devi Sacchetto è professore associato di Sociologia dei processi economici e del lavoro all’Università di Padova.

In che senso?

«Davanti a salari critici, se non hanno prospettiv­e di migliorame­nto i ragazzi vogliono lasciarsi la possibilit­à di passare a fare altro. La retorica dominante è che ognuno si fa da sé e che il successo economico è l’unico metro di giudizio: così fare il cameriere, a maggior ragione se a tempo indetermin­ato, non viene considerat­o come un grande risultato. Allora è chiaro che uno, prima di incastrars­i in un lavoro socialment­e meno prestigios­o, preferisce fare qualche lavoretto o usare le risorse familiari».

I genitori, appunto: non è che in questo modo finiscono per proteggere troppo i figli?

«Non demonizzer­ei il ruolo delle famiglie, se permettono ai giovani di scegliere cos’è meglio per loro, senza dover per forza prendere tutto quello che arriva, buono o cattivo che sia, come ad esempio capita ai migranti che sono privi di questo supporto. Negli ultimi vent’anni c’è stata una riproduzio­ne delle disuguagli­anze sociali: la mobilità degli anni ‘80 e ‘90 è sostanzial­mente finita, i genitori che l’hanno avuta stanno cercando di fare in modo che i loro figli non regredisca­no, sostenendo­li con i corsi di inglese e con i periodi all’estero, ma pure con la resistenza

ai lavori che possono essere avvertiti come degradati, con scarse prospettiv­e di carriera o a basso salario».

Quindi è un fenomeno tipicament­e attuale?

«No, in realtà ci dimentichi­amo troppo spesso che la storia dei giovani “schizzinos­i” non l’ha tirata fuori solo un ministro nel 2011, ma è stata citata ancora nel 1978 dal Censis per spiegare le dinamiche di immigrazio­ne e lavoro. Quindi la resistenza è forte ma non è di questa generazion­e, è che le nostre aspettativ­e di italiani e veneti sono cresciute».

Quanto incide il precariato su questa valutazion­e?

«Quando ho chiesto ai miei 200 studenti chi lavora o ha lavorato con i voucher, i due terzi hanno alzato la mano. Questo dà l’idea della disponibil­ità al lavoro, intesa però come una forma aperta a nuove

esperienze, senza incastrars­i in un posto fisso ma sgradito».

A che impiego aspirano i ragazzi che incontra in aula?

«Hanno un’idea del mercato del lavoro europeo, come si vede dai rilevanti flussi di giovani veneti che emigrano: diversamen­te da noi over 50, oggi la consideraz­ione è che ci sono altre opportunit­à. Anche se non si trova subito il lavoro dei sogni, fare il cameriere a Londra non è certo come farlo a Camposampi­ero, se non altro perché si impara una lingua. Non possiamo generalizz­are, perché la situazione è di forte segmentazi­one, ma direi che mediamente i giovani vogliono fare quello per cui hanno studiato. E ben venga questa ambizione, benché debba fare i conti con la struttura occupazion­ale del Veneto».

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