Glerean: mio suocero decise di morire, lasciai il calcio Padova
Ezio Glerean, allenatore e uomo di calcio, sa cosa vuol dire quando qualcuno ti «implora di morire». L’ha vissuto nel 2003, quando fu costretto a lasciare la guida tecnica del Calcio Padova, per stare vicino alla moglie olandese, il cui papà, Johannes, scelse l’eutanasia.
«Domenica sera il papà di Caroline ci telefonò dall’Olanda. Disse solo questo: venerdì ho preso appuntamento per fare l’eutanasia». Ezio Glerean, classe 1956, uomo di calcio, una vita passata sui campi di provincia («Il profeta di San Vito al Tagliamento», lo chiamavano quando meravigliava l’Italia per quel suo modo di intendere il pallone, un po’ Cruijff, un po’ Fellini), sa cosa vuol dire quando qualcuno ti «implora di morire». L’ha vissuto in prima persona, nel 2003, quando fu costretto a lasciare la guida del Calcio Padova, per stare vicino alla moglie olandese Caroline, il cui papà, Johannes, malato di tumore, da un giorno all’altro decise di affidarsi alla «dolce morte».
Sono passati quattordici anni da quel giorno. Cosa ricorda?
«Che lui non ci lasciò molto tempo per capire. Era lucido, non era terminale. Insomma, c’era la possibilità che potesse vivere ancora. Ma era sereno, determinato. Mia moglie non sapeva cosa fare: un anno prima aveva perso la mamma, sempre per tumore. E improvvisamente si trovò di fronte alla telefonata del papà, che fino a quel momento non aveva detto niente a nessuno. Io le dissi: tu parti, io resto qui con i piccoli».
In quel momento lei era alla guida di una squadra professionistica di calcio, il Padova. Cosa fece?
«Non me la sentii di proseguire. Mi dispiace che qualcuno all’epoca non capì. Pensavano che io volessi lasciare la squadra perché eravamo in un momento di difficoltà e c’erano malumori. Ma non l’avrei fatto mai. Lunedì chiamai il presidente di allora, il cavaliere Marcello Cestaro raccontandogli tutto. Lui si dimostrò un signore. “Ti aspettiamo, non ti preoccupare”, mi disse. Ma io stesso capii che non sarebbe stato possibile. In settimana ingaggiarono un sostituito, Renzo Ulivieri. E io venerdì partii per l’Olanda con i miei figli».
Era il giorno dell’eutanasia...
«Venerdì mattina, ore 10. Ricordo ancora perfettamente. Quando arrivammo Johannes era già morto. All’inizio pensavo che non l’avrebbe mai fatto. Anche sua moglie, l’anno pri- ma, aveva chiesto di morire con l’eutanasia; ma poi non ne aveva avuto la forza. Lui però era molto più deciso. Caroline provò in tutti i modi a dissuaderlo. Aveva 66 anni».
Cosa lo spinse, secondo lei? «Io penso che sia stata una scelta personale. Cosciente. Lui probabilmente non voleva pesare sui figli. Aveva la figlia qui in Italia, si sentiva che non aveva più tanta vita da spendere. Era una persona molto coraggiosa, generosa. Davvero straordinaria. Veniva spesso a trovarci in Italia e non si perdeva mai le mie partite, veniva a vedermi a Cittadella, a San Donà. Era un tifosissimo dell’Ajax».
Non voleva pesare, dice. L’eutanasia non rischia di trasformare il «diritto di morire» in «dovere di morire»?
«In questi casi ci sono tante situazioni che ti entrano dentro. Per Johannes la morte della moglie aveva rappresentato un trauma, erano molto legati. Certo, se dopo un fatto del genere puoi contare sulla salute è tutto più facile. Ma quando non ha potuto più muoversi, non riuscendo a fare la vita che amava, ha deciso. Ed era sereno, scherzava. Ecco, penso che sia giusto, sì. Quando una persona cosciente ti dice: “Io qui non ci voglio più stare, perché è una sofferenza troppo grande per me e per gli altri”, tu cosa puoi fare?».
Ai vostri figli come lo raccontaste?
«Erano piccoli al tempo. Giorgia aveva 7 anni, Marco 12. All’epoca spiegarglielo era difficile, ma dopo lo abbiamo fatto. Loro ne discutono ancora oggi».
Che cosa ha provato leggendo la vicenda di «dj Fabo»?
«L’ho seguita da vicino. Proprio per quello che ho vissuto anch’io. Credo che lui sia stata una persona coraggiosa. Ci ha detto: io questa vita l’ho vissuta, ora datemi la possibilità di viverne un’altra. E sono parole bellissime, che danno speranza».
In Italia sarebbe giusto legalizzare l’eutanasia?
«È un argomento molto delicato, penso che siano importanti non solo la decisione del paziente ma anche la responsabilità dei medici. Dico una cosa, che è bene vedere e ascoltare chi fa queste scelte. Tanti condannano, ma nessuno può essere arbitro nella sofferenza».