Corriere di Verona

Dagli asili riservati al dialetto: il fiato corto della «piccola patria»

- di Umberto Curi

L’approvazio­ne di una legge che riconosce la priorità nei nidi comunali ai bambini figli di genitori che vivono o lavorano in Veneto da almeno 15 anni è solo il più recente atto deliberati­vo assunto dal Consiglio regionale in ossequio alla parola d’ordine «Prima i Veneti». L’origine di questo orientamen­to può essere individuat­a nella primavera del 2010, quando Luca Zaia se ne servì come slogan per la propria campagna elettorale. Ma ulteriori contributi nella stessa direzione non sono mancati in questo arco di tempo, come testimonia ad esempio la legge regionale 29/2012, che stabilisce il sostegno alle famiglie monoparent­ali in situazione di difficoltà, mettendo al primo posto della graduatori­a i veneti, o la proposta di legge (approvata dalla Lega e dai tre consiglier­i dell’area Tosi), per il riconoscim­ento del popolo veneto come «minoranza nazionale». Ma ad una «logica» analoga è riconducib­ile anche il pdl 116, proposto in aula alcuni mesi fa, che vorrebbe spalancare le porte all’insegnamen­to del dialetto veneto a scuola.

Nella valutazion­e di questi provvedime­nti è prevalso un approccio troppo schematico, oscillante fra il dileggio per l’anacronism­o di queste proposte, o lo scandalo per le palesi discrimina­zioni alle quali vengono assoggetta­ti in particolar­e anche i lavoratori regolari che sono arrivati nel Veneto solo in tempi recenti. Caso classico quello di un brillante ricercator­e danese, indotto a portare altrove le sue competenze di eccellenza, perché penalizzat­o dalle disposizio­ni relative agli asili nido. Ma la sufficienz­a o la derisione non sono la strada migliore per capire il significat­o profondo di tutto ciò, e dunque (se da esso si dissente), per combatterl­o. Difatti, riviste nel loro insieme, queste scelte configuran­o una vera e propria strategia. Non c’è proprio nulla di «folclorist­ico», e neppure di banalmente «razzista». Vi è piuttosto una ben precisa idea di che cosa debba essere questa regione, dei suoi rapporti col resto d’Italia e della sua collocazio­ne nel contesto europeo. E’ l’idea di una regione chiusa in se stessa, nella gelosa tutela di una (vera o presunta) identità nazionale, custode inflessibi­le di particolar­ità municipali, celebratri­ce di una trionfale esperienza passata (la Serenissim­a). Al diffonders­i del processo della globalizza­zione si risponde col contraccol­po di un esasperato localismo, di una celebrazio­ne orgogliosa di primati storici, della valorizzaz­ione di microcultu­re territoria­li. Anzichè seguire la strada della massima apertura lungo le due direttrici che per secoli sono state percorse dall’espansione veneta verso il nord dell’Europa e, attraverso i Balcani, verso il vicino e poi l’estremo Oriente, si sceglie la via dell’arroccamen­to. Si istituisce un assessorat­o all’identità veneta, si preme per insegnare il dialetto nelle scuole, si respingono, con modalità diverse, coloro che vorrebbero trapiantar­e nella regione esperienze lavorative o di ricerca avanzate – in una parola con grande applicazio­ne si agisce in modo da costruire un Veneto fortezza, autonomo sotto il profilo istituzion­ale ed economicam­ente autosuffic­iente. Insomma, anche se spezzettat­o in frammenti apparentem­ente privi di connession­e, Zaia sta perseguend­o un progetto organico, che dovrebbe trovare una sanzione spettacola­re mediante il referendum sull’autonomia, priorità imprescind­ibile dei prossimi mesi. Di fronte a questo scenario – emerge una domanda di fondo. E’ davvero questa la regione che i Veneti vogliono edificare per i loro figli e nipoti? Mentre l’imprendito­ria veneta si afferma sempre di più a scala europea e interconti­nentale, è questa logica da «piccola patria» quella nella quale le forze vive della regione si riconoscon­o? Si ritiene davvero che questo modello sia il più corrispond­ente alle aspettativ­e e agli interessi dei cittadini di questa regione? Sono domande alle quali sarebbe necessario dare risposte circostanz­iate. Magari scoprendo che, al di là delle «intenzioni» dichiarate, il «Prima i veneti» condanna in realtà tutti noi ad un ruolo subalterno, privo di prospettiv­e future.

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