Il carpentiere mentre lo intercettavano «Se l’ho ucciso, cosa ho fatto di male»?
Delitto Perantoni, spunta registrazione choc. Ma il perito: non è chiara. La difesa insorge
«Questi pensano che l’abbia ucciso io...è vero. Se mi dovete portare via, portatemi via ragazzi...». E ancora: «Mi dispiace, è inutile che resti qua (bestemmia) ...». Quindi, la frase più inquietante di tutte: «E alla fine, se ho ucciso quello là. che cosa ho fatto di male al mondo?». Parole dal contenuto spiazzante,talmente inequivocabili da poter essere lette - se fossero state effettivamente pronunciate - come una sorta di confessione.
Tanto che è stata inevitabilmente battaglia, ieri in aula davanti alla Corte d’assise presieduta dal giudice Sandro Sperandio, sulle frasi attribuite dall’accusa a Fabio Terracciano: come spesso gli accadeva, quel giorno l’imputato stava parlando da solo dopo essere appena sceso dall’auto davanti casa. Ma un carabiniere che lo stava «attenzionando», cioè intercettando attraverso una«cimice» piazzata in auto su ordine del pm Nicola Scalabrini, quel giorno lo sentì pronunciare quelle agghiaccianti parole: discorsi tra sé e sé che, per la procura, lo inchioderebbero per l’omicidio di Romano Perantoni, il sessantenne pluripregiudicato nonché noto spacciatore di droga ammazzato nella cucina del suo residence a Pastrengo il 12 settembre 2015. Il problema, però, è che ieri in udienza, oltre al carabiniere che sostiene di aver captato quelle parole «dopo aver ascoltato con attenzione, più volte, l’intercettazione ambientale», ha deposto anche il perito Francesco Pallara, incaricato dal Tribunale di trascrivere le intercettazioni «rubate» a Terracciano. E l’esperto, riguardo a quelle specifiche frasi, ha spiegato di non averle trascritte perché «la registrazione risulta particolarmente disturbata». Ragion per cui i legali della difesa, Massimo Dal Ben e Gianluca Vassanelli, si sono opposti all’acquisizione delle «frasi che il carabiniere dice di aver sentito, visto che il perito del Tribunale non le ha sentite». Ma il presidente Sperandio, alla fine, ha risolto il diverbio facendo comunque testimoniare il carabiniere nel corso di un’udienza, quella di ieri, che si è protratta fino a pomeriggio inoltrato e che ha visto sfilare per l’accusa i primi undici testi. Per quel delitto da cui si è sempre protestato estraneo, il piccolo imprenditore di Lazise, 44 anni, finito dietro le sbarre tre mesi dopo la morte del pusher nella cucina di un residence a Pastrengo, località Tacconi, si trova sottoposto in Assise a un processo da cui dipende il suo futuro: difeso dai legali Massimo Dal Ben e Gianluca Vassanelli, è adesso accusato di un omicidio che pareva inizialmente destinato a restare insoluto e su cui invece i carabinieri hanno continuato a indagare, coordinati dal pubblico ministero Nicola Scalabrini, fino a stringere il cerchio attorno al carpentiere. Quest’ultimo, anche ieri presente davanti ai giudici, non ha mai ammesso responsabilità professandosi innocente dal giorno del fermo. Si tratta di un processo prettamente indziario, che non si prospettta affatto breve e che si incardinerà su quelle che gli inquirenti considerano le principali prove contro Terracciano, carpentiere titolare dell’omonima ditta con il fratello Lorenzo a Lazise: celle telefoniche e intercettazioni ambientali. A cominciare da quel «Adesso ho una rogna grossa che non finisce più», con cui secondo il gip «manifesta una seria preoccupazione, che non si giustificherebbe se non avesse avuto nulla da temere rispetto alla vicenda». Per non parlare poi delle frasi rivolte all’indirizzo di due persone che non gli avevano retto altrettanti alibi con gli investigatori: «Ti sistemo... Vedrai se non ti sistemo mica... fai quella fine lì... Eh, ma te sistemo anca ti vecio! Ehh! Ti sistemo anca ti, te vedarè!». Senza contare quel commento autocritico del Terracciano in auto («Un coglione sono!») il 9 dicembre 2015.Meno di una settimana dopo finì in cella.