Bpvi, sentenza storica Il giudice: «Restituisca al socio tutti i soldi»
Sentenza a Verona sul caso di una pensionata: «Nel momento della vendita l’informazione fu insufficiente»
VICENZA Quando le furono venduti i titoli, l’informazione che si trattava di azioni illiquide fu «vaga e generica», e nell’insieme «del tutto insufficiente». E se fosse stata data nei termini corretti, la pensionata non le avrebbe comprate. Sono questi i passaggi decisivi della sentenza di ieri con cui il tribunale civile di Verona condanna la Banca Popolare di Vicenza a rifondere per intero i 40 mila euro investiti, tra 2009 e 2010, da una pensionata veronese residente nella Val d’Alpone nelle azioni della banca ex popolare.
Le azioni erano illiquide, ma la banca non ne aveva spiegato i rischi al momento dell’acquisto. E il giudice condanna Popolare di Vicenza a restituire 40 mila euro a una piccola socia della provincia di Verona. Proprio in parallelo alle battute finali dell’operazione di rimborso ai soci azzerati di Bpvi e Veneto Banca, che scade martedì alle 13.30 dopo - ieri - il quarto sabato con le filiali aperte, arriva la prima sentenza su una causa civile riguardante le azioni azzerate. L’ha emessa ieri il giudice Massimo Vaccari della terza sezione civile del Tribunale di Verona, che in meno di un anno - la prima udienza risale all’aprile 2016 - ha chiuso il giudizio chiesto da una piccola socia della Val d’Alpone, seguita dall’avvocato Emanuela Bellini di Cologna Veneta, delegata dell’associazione dei consumatori Adusbef.
Si vedrà se la sentenza potrà ora incidere sull’andamento dell’operazione di rimborso, in cui le banche puntano a superare il 70% delle adesioni. La vicenda risolta in tribunale a Verona è un caso tipico nel novero degli oltre 106 mila soci azzerati dalle due popolari solo in Veneto. Una pensionata cliente di Popolare di Vicenza acquista in due tranche, a ottobre 2009 e 2010, 660 azioni della banca a 60,5 euro, per quasi 40 mila euro, «dietro insistente suggerimento della banca - come si legge nella sentenza - che le aveva rappresentato quelle operazioni come investimenti della specie più sicura e dopo esser stata rassicurata sulla possibilità di liquidare i titoli».
Anche la pensionata aveva chiesto, il 19 settembre 2014, di poter vendere le azioni. La banca che le aveva risposto, il 1. dicembre, di non poterle riacquistare, spiegando che per usare il fondo acquisto azioni proprie era diventato obbligatorio l’ok di Bce. A niente servono i successivi reclami, come la richiesta della documentazione contrattuale.
L’anno scorso scatta la causa. Con la richiesta di dichiarare nullo il contratto, visto che alla risparmiatrice non era stata consegnato e non aveva nemmeno firmato il questionario Mifid, sulla correttezza dell’investimento. Il giudice, va detto rigetta molti degli argomenti delle due parti: l’incompetenza del tribunale di Verona in favore di quello delle imprese di Venezia, così come la nullità dei contratti, visto che alla fine saltano fuori sia il questionario Mifid che la richiesta di adesione a socio. Il giudice sgombera poi il campo dal conflitto d’interessi della banca e dalla mancata evasione della domanda di vendita, visto che la banca non era obbligata ad esaudirla.
Per il giudice il cuore del problema è che la banca non aveva informato la pensionata sui rischi dell’illiquidità delle azioni
che le stava vendendo. Titoli certamente illiquidi: il giudice dichiara «decisamente disattesa» la tesi della banca che al momento degli acquisti «esisteva un vivace mercato di scambio» e che la «sostanziale illiquidità» successiva fu dovuta ai limiti introdotti al riacquisto delle azioni.
La sostanza, spiega il giudice, è che era stato «del tutto insufficiente» l’informativa sui titoli illiquidi nell’informativa precontrattuale consegnata al momento
della vendita, visto che la scheda dà un’informazione «vaga e generica» sui titoli illiquidi, senza dire che le azioni Bpvi appartenevano a quella categoria. E a ben vedere, scrive il giudice, la prima volta che la banca spiega alla risparmiatrice come avvengono gli scambi delle azioni Bpvi è solo a dicembre 2014, quando motiva la mancata vendita delle azioni.
Insomma, dice il giudice, la questione dei limiti allo scambio, con gli effetti sul prezzo, andava spiegata per bene all’atto dell’acquisto. Né vale dire che la pensionata aveva già fatto investimenti, visto che l’unico precedente riguarda un fondo d’investimento in obbligazioni governative. In più la banca non aveva svolto il test di appropriatezza, che misura la capacità del cliente di comprendere lo strumento proposto. Una «condotta inadempiente» decisiva per il giudice. Averla fatta avrebbe comportato «una specifica avvertenza che, con elevata probabilità avrebbe dissuaso dal procedere all’acquisto». E questo perché la risparmiatrice aveva dichiarato, nell’obiettivo d’investimento di dover recuperare il capitale entro breve, per dare alla figlia i soldi per comprare casa. Né vale a dire come fa la banca, che la svalutazione delle azioni è successiva e che anche titoli quotati hanno perso molto: se la risparmiatrice fosse stata informata per bene, dice il giudice, azioni non ne avrebbe proprio comprate. Risultato: la banca, «che non ha mai manifestato - scrive il giudice nella sentenza - una reale disponibilità a raggiungere una soluzione stragiudiziale della controversia», secondo l’ordinanza formulata dal giudice ad aprile 2016, deve rifondere i 40 mila euro, a cui se ne aggiungono altri 11 mila di spese legali.