Veapi, l’amico dell’imam Zavbi, il macellaio che addestrò i bellunesi
«Allora ha detto bene tua madre che tu sei l’organizzatore di tutto». Era furiosa, la moglie di Ajhan Veapi. Pretendeva che il marito le dicesse tutta la verità e per questo lo incalzava, senza sapere che i carabinieri del Ros stavano annotando ogni parola, dopo aver piazzato - il 30 ottobre del 2014 - delle microspie nel loro appartamento di Decimo Azzano, in provincia di Pordenone.
Veapi, macedone di 38 anni, è stato arrestato il 26 febbraio del 2016 con l’accusa di reclutamento con finalità di terrorismo. Fino ad allora, all’esterno appariva come un rispettabile esponente della comunità musulmana friulana con ruoli di primo piano nella gestione del centro islamico locale. Ma per l’Antiterrorismo di Venezia, era il referente per l’Italia di Bilal Bosnic, l’imam del terrore (ora recluso nel carcere di Sarajevo) che al grido di «non ci fermeremo fino alla conquista del Vaticano» arruolava in mezza Europa gli aspiranti combattenti da inviare in Siria e Iraq.
«C’è un’adesione ideologica del Veapi alle tesi sostenute dall’imam Bosnic e una piena e totale disponibilità ad assumere un ruolo non solo di intermediazione ma decisamente attivo», si legge nelle carte dell’inchiesta. Il macedone, ad esempio, era presente nel viaggio compiuto tra il 30 e il 31 maggio 2013, quando accompagnò il predicatore nel centro islamico di Pordenone per una conferenza. Con loro, c’era anche un bosniaco residente a Longarone, nel Bellunese: l’imbianchino Ismar Mesinovic. La tesi dell’accusa, che pare confermata dalla condanna di ieri, è che Veapi avesse il compito di individuare giovani musulmani in odore di fanatismo e metterli in contatto con l’imam, in modo che lui potesse plagiarli e spingerli ad arruolarsi nell’Isis.
Ci riuscirono sia con Mesinovic che con Munifer Karamaleski, un operaio macedone che abitava a Chies d’Alpago: raggiunsero insieme la Siria nel dicembre del 2013 e il bosniaco si portò dietro perfino il figlioletto Ismail, di appena tre anni, strappato con l’inganno alla madre e di cui si sono perse le tracce.
Prima di mettersi in viaggio, però, ricevettero la visita del macellaio sloveno Rok Zavbi, mandato sulle Alpi dal solito imam con il compito di «addestrarli», spiegando loro cosa avrebbero fatto una volta integrati nelle milizie dei tagliagole. Si presentò a casa di Ismar nel novembre 2013 - quando mancavano poche settimane dalla partenza - con una pistola Beretta e una miriade di racconti dallo Stato Islamico, dove era stato per alcuni mesi. «Doveva dare entusiasmo al gruppo - raccontò un testimone ai carabinieri - spiegare come funzionano logisticamente le cose in quei territori e come raggiungerli». Il magistrato le definisce «lezioni fornite ai due futuri foreign fighters dal reduce combattente». Ismar e Munifer erano molto impauriti e Zavbi tentò di rincuorarli. Mentendo. «Garantiva che le donne e i bambini stavano lontani dalle zone di guerra, raccontava aneddoti divertenti, diceva che dove erano stati destinati erano assolutamente sicuri... Ci riferiva che sul posto si sarebbero trovate diverse armi di provenienza russa, Kalashnikov, altre mitragliatrici di tutte le dimensioni».
In due anni di indagini serrate, la procura ha raccolto centinaia documenti, file audio, fotografie: prove che ieri sono bastate al giudice per condannare sia Rok Zavbi che Ajhan Veapi. Nel corso dell’udienza, il pubblico ministero Francesca Crupi ha presentato anche delle nuove intercettazioni ambientali effettuate nella cella del carcere sardo in cui il macedone si trova recluso. Dialoghi «rubati» con un bengalese - pure lui arrestato per terrorismo - in cui il braccio destro di Bilal Bosnic ricorda l’interrogatorio al quale ha accettato di sottoporsi nei mesi scorsi.
Eppure Veapi continua a professarsi innocente. «Con i terroristi dell’Isis - ripete - io non c’entro».