IL BUON GOVERNO E LA COMPETENZA
L’Unesco? Macché Venezia, macché Pompei, ma quali Sassi di Matera, i luoghi dei longobardi o la Ferrovia retica nel paesaggio dell’Albula o del Bernina. Se in Italia c’è un patrimonio dell’umanità da salvare è la figura del sindaco, il più fragile e importante« monumento» dell’ architettura istituzionale di questo Paese fatto di frane ideologiche e leggi elettorali impossibili, tempi dilatati e risposte eluse. Lui, il sindaco, no. Il sindaco non ha schermi, non ha filtri, non ha vie di fuga. Il sindaco è frontman e parafulmine di un «cliente» collettivo, nella sua singolarità, che lo affronta in carne e ossa, che lo incalza e lo spella vivo senza aspettare il ritorno all’urna. Dal degrado di un quartiere a un posto di lavoro, dal traffico sotto casa alle rette della materna, dal permesso di costruire la qualsiasi all’ordine di sgomberare e demolire un campo nomadi abusivo. Un’impresa bestiale. E scarsamente retribuita. Il sindaco è uno che lavora per uno stipendio da stagista o perlomeno dimezzato – nelle grandi città - di fronte agli ottonovemila euro al mese di un consigliere regionale o di un parlamentare. Con la differenza che ad ogni atto firmato c’è in agguato un reato penale. Anche per un errore banale o una forma di responsabilità lontanamente oggettiva.
Non è la prima volta che facciamo l’apologia del ruolo del primo cittadino. Ma è essenziale ricordarlo nel giorno in cui in Italia oltre mille comuni dei quali 87 in Veneto vanno al voto. È essenziale parlare di questo highlander civico che muore e risorge ogni cinque anni assumendosi il compito di governare il luogo fondativo di una società anch’essa sempre più fragile, liquida e complessa. Il primo in cui si crea la coesione sociale di una nazione. Un compito da far tremare i polsi. D’altra parte non ci piacciono le beatificazioni a prescindere e quindi, come riconosciamo la centralità di un ruolo, con la stessa forza ci chiediamo – e lo chiediamo ai sindaci – chi e cosa glielo faccia fare di mettersi in gioco sacrificando vita e famiglia, lavoro e salute. Soprattutto cosa. Missione etica? Vanità ? Potere?
Che cosa muova la «vocazione» è la prima domanda alla quale i sindaci (e i consiglieri comunali) dovrebbero rispondere nel momento in cui si candidano. Se noi che non scendiamo in campo abbiamo una debito di «riconoscenza» nei confronti di questi highlander municipali, il loro senso di responsabilità ce lo devono restituire attraverso il «pudore» e la consapevolezza della scelta.
Che porta con sé il «pacchetto» che ogni aspirante al seggio dovrebbe avere. Dentro quel «pacchetto» (non usiamo il termine kit perché ricorda un’estetica politica non certo aurea) c’è una parola fondamentale che racchiude le maggiori virtù del buon governante. Se l’onestà e l’empatia verso i cittadini sono i prerequisiti della buona amministrazione, la parola chiave è «competenza». Anzi al plurale: le competenze.
Nella mancanza di una «scuola politica» e nella deflagrazione della formapartito (in un bilanciamento di fortuna e sfortuna), il sindaco oggi ha assunto un carattere sempre più «civico», termine che evoca non solo la rivendicata distanza dai simboli ideologici ma che connota decisamente la qualità della persona.
Per questo, nella «solitudine del numero primo» dev’essere racchiusa la capacità di governo che si esprime con la ricchezza culturale di chi ambisce a sedere sulla poltrona che scotta. E scotta ancor più oggi perché i Comuni possono contare su poche risorse, stretti come sono fra la diminuzione dei trasferimenti statali e quel patto di stabilità che non consente di spendere buona parte di quanto hanno in cassa.
Quindi, competenze. Che significa, certo, saper far funzionare la macchina (comunale), gestire un bilancio, investire garantendo sicurezza e assistenza, assicurare decoro e qualità della vita e consegnare insomma un profilo di città «armonica» al quale ogni comunità aspira. Già tanto. Tantissimo. Ma non tutto.
Le vere «competenze», soprattutto per le città medio-grandi, sono altre e più sfidanti. Oggi i nostri comuni – presi sia singolarmente sia assieme nell’idea di «metropoli diffusa» che a proposito e a sproposito in Veneto coltiviamo da anni – hanno il diritto di avere sindaci culturalmente preparati, dotati di conoscenze tecnicoscientifiche, aperti all’innovazione, capaci di relazioni multiformi, di condividere i saperi, di cibarsi dei progetti che in altre parti del paese o del mondo hanno raggiunto risultati apprezzabili sotto il profilo della qualità della vita complessiva e del benessere.
Difesa dell’ambiente, neosviluppo industriale, zone artigianali, centri storici, università, fondazioni, welfare orizzontale (in Veneto abbiamo il più straordinario volontariato d’Italia), creatività sotto il profilo del supporto finanziario, gestione dei fondi europei. E bellezza. Inseguendo quel Bil (Bellezza interna lorda) che nel rispetto della conservazione dei beni paesaggistici e monumentali può essere il valore aggiunto dei bilanci nella terra dove la storia è miniera, risorsa naturale.
E poi gli uomini. Gli assessori, i collaboratori, i consulenti, i manager delle società municipalizzate. La «squadra» che un sindaco deve scegliere per il buon governo del suo comune del territorio .
La scelta deve ricadere sui talenti, sui competenti. Sui «migliori». Non su chi ha preso più voti. Un sindaco è la sua storia, le sue conoscenze, i «file» che possiede, il portato di una vita. Che si riverbera sulla capacità di circondarsi di un gruppo di lavoro che ha a cuore la tutela delle pietre e quella degli uomini, il futuro dei giovani e della terra il cui destino viene ereditato per cinque anni. Relativamente pochi. Ma spesso decisivi.
La squadra
La scelta deve ricadere sui talenti, sui «migliori». Non su chi ha preso più voti