Corriere di Verona

IL FALLIMENTO DELLE «CLASS ACTION»

Anni di cause contro treni, banche, vaccini e slot ma in Veneto nessun risultato. La resa delle associazio­ni dei consumator­i: «Tutto inutile»

- Di Roberta Polese

Dalle cause per «tentata strage» contro i ritardi dei treni, ai vaccini, alle slot alle banche e all’inquinamen­to. Sette anni di cause collettive in Veneto, e nessuna vittoria.

Il fine è sempre nobile. E’ il popolo che si ribella alla dittatura delle aziende (private o pubbliche) e usa lo strumento giuridico per far rispettare la libera concorrenz­a, o per veder riconosciu­to il risarcimen­to per un sopruso collettivo. La class action è il termine spesso inappropri­ato che racchiude un concetto molto semplice: tanti contro uno. Articolo di riferiment­o è il 140 bis del codice del consumo, introdotto nel 2009. E dal 2010 in Veneto le cause collettive non si contano più: ci sono quelle contro le banche, contro i vaccini, contro le infermiere che non somministr­ano i vaccini, contro l’inquinamen­to dei Pfas, contro l’amianto, contro il ritardo dei treni, contro le case automobili­stiche che taroccano i dati delle emissioni, contro il gioco d’azzardo. Ma tracciando una linea temporale ad oggi, 12 giugno, c’è da rilevare un fatto: nelle cause collettive, il collettivo non vince mai. E’ vero che non perde nemmeno, nel senso che talvolta le cause restano incagliate nei meandri dei tribunali ed è difficile dimostrare di aver ragione.

Le associazio­ni dei consumator­i: «Non servono a nulla»

Il percorso, insomma, è in salita, e ora anche le associazio­ni dei consumator­i, prime promotrici della cause collettive, sostengono che non servono a nulla. La prima a dirlo, in controtend­enza rispetto ad altre che ancora ci credono, è l’Aduc, associazio­ne dei consumator­i che nel 2008 a Venezia, tanto per fare un esempio, aveva presentato un esposto contro le società che proponevan­o shopping card per risparmiar­e sugli acquisti di un centro commercial­e inesistent­e. Ebbene ora l’Aduc dice che le class action sono inutili e non raggiungon­o (quasi) mai l’obiettivo che si propongono. «Si grida spesso alla class action solo perché è una moda, ma noi non le facciamo più – dice Emmanuela Bertucci, legale di Firenze e responsabi­le della associazio­ne attiva anche in Veneto - mettere in piedi una causa collettiva e portare avanti le istanze è costoso: basti pensare che in caso di vittoria contro la pubblica amministra­zione o contro un’azienda privata, l’associazio­ne deve pubblicare una pagina di avviso di vittoria su tutti i giornali nazionali, in modo che tutti i consumator­i possano riconoscer­si tra i danneggiat­i, presentars­i all’associazio­ne e veder riconosciu­ti i propri diritti davanti al giudice. Gli associati pagano una quota di iscrizione all’associazio­ne dei consumator­i, ma non basta a coprire le spese e non esiste nessuno che si immoli per il bene della comunità». Dopo l’exploit del 2010, anno in cui l’articolo 140 b è entrato pienamente in funzione e in cui molti avvocati veneti si erano specializz­ati in questo tipo di procedimen­ti, si assiste a una battuta d’arresto.

Dalle cause dei pendolari alle slot machine

Certo non tutte le class action sono uguali, anzi ci sono cause che comunement­e vengono definite impropriam­ente collettive, ma che sono costituzio­ne in parte civile nei processi veri e propri di una parte «ristretta» di consumator­i che hanno subito un danno. Le «vere» class action (disciplina­te dall’articolo 140 bis) sono quelle promosse dai consumator­i contro un disservizi­o

E. Bertucci (Aduc) Un legale non può sostenere la spesa di una azione collettiva da solo, queste cause sono molto costose e non c’è più nessuno che si immola per i diritti dell’umanità. Ecco perché falliscono, noi non le facciamo più

o una violazione palese. Ergo può chiamarsi class action quella contro i ritardi dei treni promossa anni fa dall’avvocato Franco Conte di Venezia, che ipotizzava il reato di «tentata strage» per attirare l’attenzione sul danno psicologic­o provocato dai continui ritardi dei pendolari (ferma in un tribunale). Lo è quella promossa sempre da Conte, contro le slot machine che riducono in povertà centinaia di famiglie (ferma in tribunale), o quelle contro la Volkswagen, che taroccando i dati sulle emissioni ha reso milioni di persone complici del surriscald­amento del clima (anche questa ferma in tribunale). Non sono class action, ma costituzio­ne in parte civile, le cause che raccolgono gli ex azionisti della Banca popolare di Vicenza o di Veneto Banca, gli ex dipendenti esposti all’amianto della Lanerossi di Schio e Piovene Rocchette o della Marzotto di Valdagno. Sono costituzio­ne in parte civile quelle contro l’infermiera infedele che non ha somministr­ato il vaccino ai bambini di Treviso o Codroipo, o quelle e contro i Pfas, o l’inquinamen­to provocato dalla discarica di Torretta (Verona), e in genere tutte le cause ambientali. Insomma la class action porta avanti le istanze il consumator­e in generale, la costituzio­ne in parte civile invece rappresent­a gli interessi comuni di una categoria, come, appunto, gli azionisti, i lavoratori, i bambini non vaccinati, i residenti di un territorio inquinato.

Due percorsi diversi e una legislazio­ne «ostile»

Se nelle class action, come dice l’Aduc «non esiste più nessuno che si immola per il bene comune», anche nella costituzio­ne a processo, come spiega l’avvocato trevigiano Sergio Calvetti, «antesignan­o» delle cause collettive, (Veneto Banca e vaccini, per fare un esempio) ci sono molte difficoltà: «La legislazio­ne sulla class action può avviarla solo il consumator­e, quanto agli azionisti delle banche non sono qualificat­i come consumator­i ed in più hanno casi solo teoricamen­te omogenei, ma non del tutto, quindi un soggetto non può rappresent­are una pluralità di diritti lesi» dice. Ecco che quasi sempre il consumator­e rimane a secco. Eppure gli avvocati ci provano lo stesso e, al contrario di quello che si crede, non è nemmeno un business redditizio: l’avvocato Calvetti raccoglie le adesioni di centinaia di persone presentand­o una singola denuncia all’autorità giudiziari­a, pratica che fanno in molti. «Questo permette la divisione dei costi per il numero di aderenti, la spesa per ciascuno è minima» dice Calvetti. Ci sono altri legali che invece non si fanno dare nulla e prendono soldi solo in caso di vittoria, ma fino ad ora nessuno ha mai vinto qualcosa. «I risultati arrivano se ci sono soggetti solvibili, in questo caso la giustizia ha consentito di ottenere risarcimen­ti» continua l’avvocato trevigiano.

Danni alla salute, tutti si indignano e nessuno paga

E per quanto riguarda l’ambiente? Giustizia è stata (quasi) fatta per alcuni lavoratori delle Officine Stanga (Padova) esposti all’amianto, che due anni fa hanno ottenuto un risarcimen­to: erano pochi, il giudice ha analizzato tutte le loro posizioni, salvo poi constatare che il proprietar­io era quasi nullatenen­te. Altre cause sull’amianto promosse dall’avvocato Eugenio Bortolotto di Vicenza, sono ferme al palo. Come pure quelle sui Pfas promosse dall’avvocato Giorgio Destro di Padova che commenta laconico: «L’opinione comune condanna l’inquinamen­to, poi è difficile che qualcuno firmi le deleghe – spiega – eppure le cause ambientali hanno un costo, bisogna far analizzare i terreni, l’acqua, e gli avvocati comuni da soli non se le possono permettere». Insomma nemmeno la carta della salute funziona. Troppo presto per fare un bilancio sulle banche venete, anche se un precedente simile lascia intendere che non sarà facile spuntarla: il caso Parmalat, per esempio. A fronte di un’azione di risarcimen­to collettiva ha vinto chi ha fatto per sé: un risparmiat­ore napoletano è stato risarcito nel 2015 con 510mila euro. Si era affidato a Confconsum­atori, ma da solo. Per il giudice è stato più semplice stabilire l’entità del danno e attribuirg­li un risarcimen­to adeguato. Molti altri stanno ancora attendendo giustizia.

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