Corriere di Verona

VERONA, EFFETTO REFERENDUM

- Di Massimo Mamoli

Ascrivere la vittoria di Federico Sboarina all’onda nazionale del centrodest­ra spiega in maniera fuorviante quello che è accaduto a Verona e come la potrà cambiare. Perché non rende verità al risultato che ha ottenuto e che gli va riconosciu­to. Per tre ordini di motivi. Il primo. Se dovessimo analizzare il dato elettorale sul territorio, tanto per cominciare in Veneto è accaduto esattament­e il contrario. Da Padova a Belluno, da Abano all’ex grillina Mira, le bandiere che sventolano nei Comuni sono di centrosini­stra, a volte tendente all’arancione. In riva all’Adige la storia è completame­nte diversa. Secondo motivo. Quello di domenica è stato un voto che codifica la fragilità dei partiti, che sgretola ogni roccaforte di poteri locali consolidat­i nella fisiologic­a alternanza. Alimentata oggi più che da spinte ideologich­e, dalla volontà di cambiament­o. Vince prima di tutto il progetto politico del neo sindaco, «Battiti», successiva­mente appoggiato da Lega, Fi e Fratelli d’Italia.

Non solo perché lo dimostrano i numeri alle urne, ma prima ancora lo ha reso evidente la conta delle persone in piazza nei comizi dei partiti a sostegno. Salvini incluso. Ha portato più acqua la gente del movimento di Sboarina. E questo conferisce al nuovo sindaco una legittimaz­ione ma soprattutt­o una responsabi­lità maggiore. Perché ancora più alte sono le aspettativ­e di cui si fa carico. E l’autonomia che dovrà dimostrare. La palla in campo è sua, non solo la faccia. Un candidato di partito probabilme­nte non avrebbe convinto una città, perché non ne avrebbe intercetta­to le trasversal­ità moderate. Terzo motivo, che origina dal precedente, con una specificit­à nettamente locale. Quello di domenica non era solo un voto per le amministra­tive, ma più potentemen­te un referendum pro o contro Tosi. Come a Padova era contro il «nemico» leghista Bitonci. Due «podestà» sconfitti pur se su fronti opposti. Con la differenza che nella città del Santo era la ribellione maturata contro l’imperatore «straniero». A Verona contro un sistema. Dieci anni di governo, ma anche di strappi, di carica ma anche di stanchezza, di strascichi politici e guerre originate dagli effetti delle inchieste hanno fatto passare in secondo piano le cose fatte e non fatte. La continuità è diventata un marchio. In testa, un Tosi due messo con le spalle al muro dal suo ex partito, che ha innescato la marcia nazionale, fronte oltre le mura che è stato punto di strategia e di visibilità, ma anche il suo tallone d’Achille. L’endorsemen­t di Renzi si è rivelato alla fine un abbraccio mortale. Da un lato perché ha reso Tosi e la sua candidata agli occhi degli elettori un’espression­e non di centrodest­ra in una città storicamen­te tale. Dall’altro perché ha fatto deflagrare un effetto boomerang, come ha dimostrato l’inesistent­e appoggio dell’elettorato dem. Che si è rifiutato di votare a favore di chi, per tutto il tempo precedente, era il soggetto politico avverso. Il risultato è un solco incolmabil­e tra il Flavio sindaco che per due volte ha stravinto al primo turno, e la faticosa campagna in salita del 2017. Chi votava per la sua compagna, la senatrice Patrizia Bisinella, non votava per lei o contro di lei, ma per ciò che rappresent­ava. Non uno schieramen­to, ma un uomo e un sistema in cui il resto della città, degli ex alleati della prima giunta di centrodest­ra, e i lacerati ex nemici democratic­i non si riconoscev­a. E in tale strettoia si allargava nel contempo il solco di Sboarina, percepito più «unitario» rispetto al profilo diventato più «divisivo» di Tosi. Ragionamen­to, quest’ultimo, che non cade a fronte di un ragionamen­to sull’astensioni­smo record. Dato che certo fa preoccupar­e. Anche in Francia la vittoria di Macron è espression­e desolante di un elettore su cinque. Ma questo non ha certo impedito di segnare l’inizio di un nuovo ciclo politico. Qui si apre la fase più interessan­te, che è quella del futuro. Sboarina dovrà ancor di più agire per «conquistar­e» la fascia più ampia del sentire della città. E, soprattutt­o, rappacific­arla. Di ritrovare cioè quella coesione sociale che una campagna di veleni ha intaccato ma non compromess­o. Un sindaco che sia esplorator­e di nuovi orizzonti più che custode di vecchi confini può essere il federatore di un processo che ora ricomincia. Se avrà la visione e la forza per interpreta­rlo, non solo con i numeri, questa sarà la vera prova della storia. Dopo le urne.

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