«Giacino intimoriva Leardini La tangente? Le prove ci sono»
Le decisioni degli Ermellini: confermata la condanna e parte del processo torna in appello
«Giacino aveva deciso di avere condotte illegali». E ancora: «Sfruttava la sudditanza psicologica di Leardini». E poi: «La tangente? Le prove ci sono». Sono alcuni stralci delle motivazioni della sentenza della Cassazione che ha confermato la condanna per l’ex vicesindaco e la moglie, rimandando in appello parte del processo per tangenti (con il rischio per l’ex politico di una pena maggiore).
«L’iniziativa delle condotte illecite fu presa dal Giacino, e in termini estremamente incisivi e dettagliati». Secondo la Cassazione, nel modus agendi dell’ex vicesindaco Vito Giacino e della moglie Alessandra Lodi, «si osserva che le richieste di denaro furono formulate approfittando di uno stato psicologico di soggezione del privato noto al pubblico ufficiale, derivante dall’esigenza di conseguire rapidamente il buon esito delle pratiche amministrative intraprese, per esigenza di liquidità, nonché dal timore di intralci e difficoltà frapposti da scelte o comportamenti discrezionali di quella pubblica amministrazione nella quale il secondo, in quanto assessore all’Edilizia privata e anche vicesindaco, aveva un ruolo di estremo rilievo».
É uno dei passaggi chiave tratti dalle 39 pagine di motivazione in base a cui gli Ermellini spiegano perché alla vigilia delle ultime amministrative, la sera del 6 giugno scorso, hanno condannato in via definitiva i coniugi Giacino per le false consulenze affidate dall’imprenditore edile Alessandro Leardini alla Lodi (3 anni e 4 mesi all’ex politico, 2 anni e 4 mesi alla moglie avvocato), rinviando invece la coppia a un nuovo giudizio d’appello per rispondere della «promessa nel 2011 di un milione e 270mila euro e per la dazione in contanti di centomila euro» . Era stato l’ex procuratore generale della Corte d’Appello di Venezia, Antonino Condorelli, alla vigilia della pensione, a ricorrere in Cassazione motivando tale sua iniziativa con la necessità di «adeguare, ovvero aggravare, la pena» riguardo alla tangente in contanti. Rigettati in toto dalla Suprema Corte, invece, i ricorsi della difesa che puntava all’assoluzione piena dei due imputati: a parere dei giudici, infatti, «la condotta di Giacino - in quanto comportamento del pubblico ufficiale che chiede e ottiene, per sé o per un altro, la dazione o la promessa di una cospicua utilità, approfittando della preoccupazione del destinatario della sua richiesta di subire scelte o comunque comportamenti pregiudizievoli non necessitati da parte della pubblica amministrazione nella quale egli riveste un ruolo di rilievo e in cambio della promessa a prestare attenzione alle esigenze dell’interessato entro i limiti formalmente consentiti dell’ordinamento giuridico può essere ricondotta nello schema dell’abuso del pubblico funzionario che volge a suo favore la posizione di debolezza psicologica del privato e ne innesca così il processo volitivo da cui discende la decisione di corrispondere l’indebito».
Stando alla Cassazione, «deve ritenersi corretta la conclusione della Corte d’Appello, e prima ancora del giudice di primo grado, in ordine alla qualificazione giuridica degli episodi in termini di induzione indebita», in virtù del fatto che «le trattative sul prezzo da pagare non implicavano un rapporto paritario, che la principale garanzia di adempimento per il Giacino era costituita proprio dal suo ruolo all’interno dell’amministrazione comunale, e che significative sono anche le modalità della prima richiesta di denaro avanzata dal pubblico ufficiale, il quale dapprima aveva sollecitato una dazione senza precisare l’importo, poi aveva ridicolizzato l’offerta, accusando l’interlocutore di scarsa serietà, quindi aveva fissato una somma dieci volte maggiore». Riguardo al denaro, poi, per i giudici «il pagamento della tangente in ogni caso è un versamento contrario al buon costume» e «la somma versata è comunque confiscabile dallo Stato, sicché il riconoscimento di un risarcimento al privato implica una duplicazione di sanzione patrimoniale».
E mentre secondo le difese il costruttore Leardini non sarebbe risultato né credibile né attendibile nelle sue dichiarazione contro i coniugi Giacino, per la Suprema Corte è vero l’esatto contrario: «Non può infatti dirsi manifestamente illogica, anche in una prospettiva di accertamento della colpevolezza al di là del ragionevole dubbio, l’affermazione dell’esistenza di un clima di sudditanza psicologica, nonostante l’accettazione dei ritardi nel pagamento delle somme pattuite e l’assenza di atti amministrativi illegittimi riferibili al pubblico ufficiale». E non è finita: a parere degli Ermellini, «le dichiarazioni del Leardini, da un lato, rappresen- tano l’erogazione di cospicue dazioni in favore del pubblico ufficiale e nelle modalità da questi richieste, e, dall’altro, segnalano alcune difficoltà nei rapporti tra le sue imprese ed il Comune, nonché l’assenza di formali illegittimità in suo favore da parte del Giacino». Per quanto riguarda la presunta «mancanza di riscontri esterni» lamentata dalla difesa, secondo la Cassazione invece sussiste «l’esistenza di tre distinti riscontri estrinseci, desunti: dalle cospicue erogazioni di denaro da parte di società del Leardini per circa 170 mila euro nell’arco del triennio dal 2010 al 2013, in favore della Lodi, in relazione a consulenze in realtà prive di apprezzabile significato; dai continui viaggi in Italia e all’estero effettuati congiuntamente dall’imprenditore e dal Giacino, al di fuori di qualunque ambito familiare e di frequentazione personale, ed in un contesto di particolari cautele nella tenuta delle comunicazioni; dai contatti diretti e tramite intermediari, tra il Leardini e il Giacino dopo la presentazione dell’esposto anonimo in procura e l’inizio delle indagini».
Alla luce di ciò, la Suprema Corte ha dunque annullato l’assoluzione dei Giacino dall’accusa di induzione indebita circa la promessa del milione e 270 mila euro e la successiva dazione in contanti di centomila euro: accogliendo il ricorso dell’allora Pg Condorelli, infatti, gli Ermellini concludono che «le affermazioni dei giudici di secondo grado risultano quanto meno equivoche laddove si ribadisce l’assenza di riscontri», ragion per cui «la sentenza impugnata deve ritenersi giuridicamente viziata. Se infatti la Corte d’Appello intendeva affermare la non piena attendibilità delle dichiarazioni di Leardini, si tratta di una valutazione giuridicamente consentita, ma che andava più chiaramente e compiutamente sviluppata in motivazione. Se invece la Corte d’Appello intendeva affermare esattamente l’inidoneità dimostrativa delle dichiarazioni di Leardini per l’assenza di riscontri, la conclusione è giuridicamente errata, e quindi viziata da violazione di legge». Nel nuovo processo d’appello, i giudici dovranno infine «rispettare il principio in forza del quale, dove le dichiarazioni del Leardini su detti episodi siano attendibili, non occorre acquisire ulteriori requisiti estrinseci». Parola di Corte Suprema.