Corriere di Verona

Quei dieci infiltrati dei Servizi segreti

- di Roberta Polese

VENEZIA C’è la prevenzion­e che si vede, e quella nascosta. Ci sono le riunioni per l’ordine e la sicurezza, le barriere in cemento nelle piazze, le pattuglie armate nelle città. E poi ci sono scarni scambi di informazio­ni nelle periferie lontane da occhi indiscreti. Anche questo è uno dei volti della lotta al terrorismo. Oltre al (notevole) lavoro che mettono in campo le forze dell’ordine c’è un mondo che si muove sotto traccia che gira attorno agli «informator­i» individuat­i e selezionat­i dai funzionari dei servizi segreti italiani.

Gli informator­i stabili, i più affidabili, sono una decina in tutto il Triveneto. Sono stranieri, vivono una vita normale, non si mettono nei guai, hanno una casa, un lavoro, una famiglia. Frequentan­o le moschee, seguono con devozione la loro religione islamica. Sono per lo più marocchini e lavorano per il governo italiano. I servizi segreti si servono di loro, li «strutturan­o», termine che in gergo significa fornirgli da vivere, aiuti economici o altri sostegni. Quello che l’informator­e fa è raccontare cosa si muove nel suo ambiente, anche le cose più insignific­anti. Tutte le informazio­ni verranno poi trasmesse alla Presidenza del Consiglio, unica carica che coordina i Servizi. Nulla di nuovo sotto il sole: film e serie tv hanno sviscerato ogni aspetto della vita segreta degli informator­i, ma stando a quanto si apprende certe vite sono molto meno avventuros­e di quello che sembrano.

A differenza dei Servizi, invece, i canali informativ­i di Digos e Ros sono molto più complicati, perché raccolgono ogni giorno migliaia di notizie da scremare tra verità e false dritte di quelli che si vendono i nemici per vendetta. Ci sono indagini che vanno avanti anche anni senza che si raggiunga alcun risultato. E poi ce ne sono altre, come quella che ha portato all’arresto degli jihadisti veneziani lo scorso marzo, che portano a blitz senza precedenti. È lo stesso procurator­e nazionale antimafia Franco Roberti, che coordina anche le indagini sull’antiterror­ismo, a dire che quell’indagine era stata emblematic­a: «Quegli arresti sono stati esemplari, sono il segno di come dalla prevenzion­e si arriva alla repression­e - spiega - è stato un ottimo spunto investigat­ivo che ha portato a sventare un atto terroristi­co devastante - conclude - Venezia poteva essere la nostra Barcellona».

Si dice che i servizi segreti del Nordest, come pure l’anticrimin­e, siano molto preparati in tema di prevenzion­e, in virtù di una radicata tradizione di terrorismo legato al movimento degli autonomi negli anni ‘7o. Vero o no, è certo che se il lavoro degli investigat­ori è legato alle indagini e alle direttive della procura, quella dei Servizi è totalmente autonoma. Il problema è la fiducia. Come si fa a sapere se l’informator­e dice cose vere? Per questo c’è il contro-spionaggio. Detto in parole semplici: l’informator­e lo si rivolta come un calzino. Si controllan­o i suoi contatti, le amicizie, i parenti, i flussi di denaro. Il rischio è che la spia straniera passi le informazio­ni ai Servizi segreti del paese d’origine, per cui vale sempre la regola base di farsi raccontare il più possibile senza dare alcuna informazio­ne.

«La fissa» delle spie l’aveva anche lo stesso Marco Minniti, che nel 2015, mentre era sottosegre­tario all’Interno, in un incontro a Ca’ Foscari aveva lanciato il reclutamen­to di giovani esperti informatic­i capaci di insinuarsi nel web e intercetta­re i dialoghi dei terroristi. Mentre un altro aspetto di cui si occupa l’Aisi, agenzia dei servizi segreti interni, è scoprire i flussi di denaro che finanziano le cellule terroristi­che. Un compito difficilis­simo per anticrimin­e e polizia perché i terroristi, come pure i trafficant­i di droga comuni, si servono della «Hawala» un metodo di pagamento che si fonda su una compensazi­one tra crediti e debiti basata su rapporti di fiducia e parole in codice. Con la Hawala i soldi entrano in disponibil­ità del terrorista senza che ci siano bonifici. Un metodo complicati­ssimo che mette in crisi l’arma infallibil­e che fu del pm Giovanni Falcone, ovvero il «follow the money». Altro che monitorare i money transfer o le banche africane (una ha addirittur­a tre sedi solo a Padova): i soldi non passano quasi più di lì. E insieme a tutto questo si è alzata nel paese l’asticella dei controlli di persone e attività considerat­e «sensibili» come kebabbari, rivenditor­i pakistani, macellerie islamiche, internet point. Ma la stretta continua ancora, come dice il questore di Vicenza Giuseppe Petronzi: «La prevenzion­e passa anche attraverso un controllo del territorio che coinvolga i luoghi in cui i terroristi potrebbero trovare ciò di cui hanno bisogno prima agli attentati spiega -. Monitoriam­o non solo le strutture alberghier­e ma anche le società di noleggio veicoli con un occhio particolar­e ai clienti non abituali che chiedono di affittare mezzi pesanti e non solo». I carabinier­i stanno tenendo d’occhio anche i furti di auto e dei fertilizza­nti, con cui si possono costruire bombe. Insomma la sicurezza, per essere davvero sicura, deve muoversi nel silenzio.

Il procurator­e Roberti «Il sistema funziona e ha preso i 4 di Rialto Venezia poteva essere un’altra Barcellona»

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