Quei dieci infiltrati dei Servizi segreti
VENEZIA C’è la prevenzione che si vede, e quella nascosta. Ci sono le riunioni per l’ordine e la sicurezza, le barriere in cemento nelle piazze, le pattuglie armate nelle città. E poi ci sono scarni scambi di informazioni nelle periferie lontane da occhi indiscreti. Anche questo è uno dei volti della lotta al terrorismo. Oltre al (notevole) lavoro che mettono in campo le forze dell’ordine c’è un mondo che si muove sotto traccia che gira attorno agli «informatori» individuati e selezionati dai funzionari dei servizi segreti italiani.
Gli informatori stabili, i più affidabili, sono una decina in tutto il Triveneto. Sono stranieri, vivono una vita normale, non si mettono nei guai, hanno una casa, un lavoro, una famiglia. Frequentano le moschee, seguono con devozione la loro religione islamica. Sono per lo più marocchini e lavorano per il governo italiano. I servizi segreti si servono di loro, li «strutturano», termine che in gergo significa fornirgli da vivere, aiuti economici o altri sostegni. Quello che l’informatore fa è raccontare cosa si muove nel suo ambiente, anche le cose più insignificanti. Tutte le informazioni verranno poi trasmesse alla Presidenza del Consiglio, unica carica che coordina i Servizi. Nulla di nuovo sotto il sole: film e serie tv hanno sviscerato ogni aspetto della vita segreta degli informatori, ma stando a quanto si apprende certe vite sono molto meno avventurose di quello che sembrano.
A differenza dei Servizi, invece, i canali informativi di Digos e Ros sono molto più complicati, perché raccolgono ogni giorno migliaia di notizie da scremare tra verità e false dritte di quelli che si vendono i nemici per vendetta. Ci sono indagini che vanno avanti anche anni senza che si raggiunga alcun risultato. E poi ce ne sono altre, come quella che ha portato all’arresto degli jihadisti veneziani lo scorso marzo, che portano a blitz senza precedenti. È lo stesso procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, che coordina anche le indagini sull’antiterrorismo, a dire che quell’indagine era stata emblematica: «Quegli arresti sono stati esemplari, sono il segno di come dalla prevenzione si arriva alla repressione - spiega - è stato un ottimo spunto investigativo che ha portato a sventare un atto terroristico devastante - conclude - Venezia poteva essere la nostra Barcellona».
Si dice che i servizi segreti del Nordest, come pure l’anticrimine, siano molto preparati in tema di prevenzione, in virtù di una radicata tradizione di terrorismo legato al movimento degli autonomi negli anni ‘7o. Vero o no, è certo che se il lavoro degli investigatori è legato alle indagini e alle direttive della procura, quella dei Servizi è totalmente autonoma. Il problema è la fiducia. Come si fa a sapere se l’informatore dice cose vere? Per questo c’è il contro-spionaggio. Detto in parole semplici: l’informatore lo si rivolta come un calzino. Si controllano i suoi contatti, le amicizie, i parenti, i flussi di denaro. Il rischio è che la spia straniera passi le informazioni ai Servizi segreti del paese d’origine, per cui vale sempre la regola base di farsi raccontare il più possibile senza dare alcuna informazione.
«La fissa» delle spie l’aveva anche lo stesso Marco Minniti, che nel 2015, mentre era sottosegretario all’Interno, in un incontro a Ca’ Foscari aveva lanciato il reclutamento di giovani esperti informatici capaci di insinuarsi nel web e intercettare i dialoghi dei terroristi. Mentre un altro aspetto di cui si occupa l’Aisi, agenzia dei servizi segreti interni, è scoprire i flussi di denaro che finanziano le cellule terroristiche. Un compito difficilissimo per anticrimine e polizia perché i terroristi, come pure i trafficanti di droga comuni, si servono della «Hawala» un metodo di pagamento che si fonda su una compensazione tra crediti e debiti basata su rapporti di fiducia e parole in codice. Con la Hawala i soldi entrano in disponibilità del terrorista senza che ci siano bonifici. Un metodo complicatissimo che mette in crisi l’arma infallibile che fu del pm Giovanni Falcone, ovvero il «follow the money». Altro che monitorare i money transfer o le banche africane (una ha addirittura tre sedi solo a Padova): i soldi non passano quasi più di lì. E insieme a tutto questo si è alzata nel paese l’asticella dei controlli di persone e attività considerate «sensibili» come kebabbari, rivenditori pakistani, macellerie islamiche, internet point. Ma la stretta continua ancora, come dice il questore di Vicenza Giuseppe Petronzi: «La prevenzione passa anche attraverso un controllo del territorio che coinvolga i luoghi in cui i terroristi potrebbero trovare ciò di cui hanno bisogno prima agli attentati spiega -. Monitoriamo non solo le strutture alberghiere ma anche le società di noleggio veicoli con un occhio particolare ai clienti non abituali che chiedono di affittare mezzi pesanti e non solo». I carabinieri stanno tenendo d’occhio anche i furti di auto e dei fertilizzanti, con cui si possono costruire bombe. Insomma la sicurezza, per essere davvero sicura, deve muoversi nel silenzio.
Il procuratore Roberti «Il sistema funziona e ha preso i 4 di Rialto Venezia poteva essere un’altra Barcellona»