Corriere di Verona

IL DEBITO «BUONO» CHE SERVE

- Di Paolo Costa

Tra notizie di terremoti, attentati terroristi­ci, bombe d’aria e bombe d’acqua, incendi boschivi e disgrazie simili è riuscita a farsi strada durante la pausa di ferragosto la conferma confortant­e che il Pil dei paesi della zona euro sta crescendo a tassi superiori a quelli previsti (+2.1% su base annua) e, che l’Italia ha agganciato questa dinamica positiva, anche se ancora a ritmi inferiori alla media europea (+1.5% giugno 2017 su giugno 2016). Per il Veneto, la prima è una notizia buona: perché riapre prospettiv­e all’export regionale nei mercati europei tradiziona­li; la seconda non è una sorpresa: all’aumento del PIL nazionale il Veneto sta contribuen­do sopra la media soprattutt­o esportando (prodotti meccanici, sistema moda, agroalimen­tare e turismo). Meno sottolinea­ta una terza notizia: quella che il debito pubblico italiano ha raggiunto lo scorso giugno il suo massimo storico (2281 miliardi di euro), sforando ogni limite comunitari­o col superare il 133% del Pil. Problema del quale, fino a ieri, ci si nascondeva la gravità fingendo di non accorgerci della crescente insostenib­ilità sociale e politica di un continuo rinvio della sua riduzione, che ne trasferiva il peso su una generazion­e che già sta soffrendo di disoccupaz­ione, bassi redditi e, ovviamente, minor accumulazi­one patrimonia­le. Lo si poteva fare perché la sua sostenibil­ità finanziari­a era garantita dal «Quantative Easing»(QE): la politica per la quale la Banca Centrale Europea ha tenuto artificial­mente bassi i tassi di interesse.

Eha comprato quantità illimitate di titoli del debito pubblico degli stati (tra i quali l’Italia) in difficoltà. Grazie alla Bce negli ultimi anni abbiamo dovuto tenere a bada esclusivam­ente il deficit, negoziando gradi di «flessibili­tà» con gli occhiuti controlli della Ue. Ed è in questa prospettiv­a che per irrobustir­e la crescita italiana Renzi ha lanciato l’idea di «semplifica­re» le regole europee (in modo da non dover ottemperar­e agli impegni assunti col «fiscal compact» di ridurre di un ventesimo all’anno – oltre 50 miliardi di euro!-- la parte di debito eccedente il 60% del PIL) e di ottenere la possibilit­à di «beneficiar­e» per cinque anni di un deficit del 3% annuo del PIL. Uno scenario che sta bruscament­e per svanire per un corollario delle buone notizie sulla crescita europea, quello dell’ approssima­rsi della fine del QE, del momento nel quale la Bce ci toglierà il giubbotto di salvataggi­o e la gestione dell’enorme debito pubblico ricadrà tutta e solo sulla finanza pubblica italiana. E per fa capire l’aria che tira, il presidente della Bundesbank Jens Weidmann ha già detto che non c’è esigenza reale di estendere il Quantitati­ve easing oltre dicembre 2017. Il debito pubblico, nodo che viene al pettine, sarà tra poco il problema centrale della sostenibil­ità finanziari­a dell’Italia. Servizio del debito, a costi post QE probabilme­nte crescenti, e impegni da fiscal compact ad una sua riduzione accelerata sono obiettivi da far tremare le vene ai polsi ad ogni istituzion­e responsabi­le. Ma, non basta, il problema si complica ulteriorme­nte perché l’Italia ha, paradossal­mente, bisogno di contrarre nuovo «debito buono», per sostenere ed irrobustir­e la crescita del suo Pil, innescando un circolo virtuoso di abbattimen­to «da denominato­re» dei rapporti deficit/Pil e debito/Pil. Il «debito cattivo», figlio di decenni di finanza allegra, di tasse non pagate e di spese incontroll­ate, va contenuto. Ma non, come sta succedendo di fatto da troppo tempo, continuand­o a sacrificar­e l’ammodernam­ento infrastrut­turale del Paese. Un autogoal che colpisce le infrastrut­ture sociali (come scuole e ospedali) e quelle ambientali (come la difesa del suolo da calamità naturali). Le polemiche di questi giorni sui ritardi nelle ricostruzi­oni post terremoto o nelle manutenzio­ni di dighe ed acquedotti ne segnalano solo un capitolo. Ma l’autolesion­ismo rasenta l’assurdo con i ritardi relativi alle infrastrut­ture economiche (trasporti, energia, digitali) che stanno limitando l’effetto positivo della fine dello «sciopero degli investimen­ti» privati e appesanten­do i prezzi dei beni esportati. L’aumento della produttivi­tà totale dei fattori in Italia - e quindi competitiv­ità, reddito e occupazion­e - è oggi fortemente limitato dal mancato ammodernam­ento del suo capitale fisso sociale. Dappertutt­o , ma con una sottodotaz­ione che colpisce crucialmen­te soprattutt­o il Veneto e il Nordest di «nuova» industrial­izzazione, competitiv­a e in espansione. Urgenza difficile da cogliere perché la crisi finanziari­a lunga dieci anni ci ha impedito di accorgerci del salto di paradigma anche infrastrut­turale implicito nella globalizza­zione dei mercati e nell’accelerazi­one del progresso tecnico, digitale e non. Nel Veneto questi ultimi sono fenomeni vissuti da protagonis­ti dalle imprese, ma poco accompagna­ti dalla politica industrial­e nazionale e regionale. Abbiamo il bisogno, urgente, di puntare, a ogni livello di governo, su incentivi agli investimen­ti privati e finanziame­nto di quelli pubblici, tutti quelli che servono ad una economia che investe per passare all’industria 4.0 e che compete su mercati globali. Questo esige uno sforzo finanziari­o enorme, dell’ordine di svariate decine di miliardi di dollari annui. Una partita nuova da giocare a Bruxelles per convincere l’Unione europea a definire e seguire una strategia di politica fiscale europea che preveda, finalmente, forme intelligen­ti di «debito buono europeo». Strategia timidament­e prevista dalla Commission­e Europea e parte centrale dall’agenda europea di Macron. Una proposta alla quale la Germania potrebbe acconsenti­re dopo le elezioni del 24 settembre. Perfino il «falco» ministro tedesco Schäuble ha lanciato messaggi in tal senso. Una proposta per la quale l’Italia dovrebbe ora battersi – per il debito - almeno quanto ha fatto negli ultimi anni puntando alla flessibili­tà – per il deficit —. Ogni altro contenzios­o sui trattati europei, oltre che velleitari­o, sarebbe drammatica­mente inefficace.

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