IL DEBITO «BUONO» CHE SERVE
Tra notizie di terremoti, attentati terroristici, bombe d’aria e bombe d’acqua, incendi boschivi e disgrazie simili è riuscita a farsi strada durante la pausa di ferragosto la conferma confortante che il Pil dei paesi della zona euro sta crescendo a tassi superiori a quelli previsti (+2.1% su base annua) e, che l’Italia ha agganciato questa dinamica positiva, anche se ancora a ritmi inferiori alla media europea (+1.5% giugno 2017 su giugno 2016). Per il Veneto, la prima è una notizia buona: perché riapre prospettive all’export regionale nei mercati europei tradizionali; la seconda non è una sorpresa: all’aumento del PIL nazionale il Veneto sta contribuendo sopra la media soprattutto esportando (prodotti meccanici, sistema moda, agroalimentare e turismo). Meno sottolineata una terza notizia: quella che il debito pubblico italiano ha raggiunto lo scorso giugno il suo massimo storico (2281 miliardi di euro), sforando ogni limite comunitario col superare il 133% del Pil. Problema del quale, fino a ieri, ci si nascondeva la gravità fingendo di non accorgerci della crescente insostenibilità sociale e politica di un continuo rinvio della sua riduzione, che ne trasferiva il peso su una generazione che già sta soffrendo di disoccupazione, bassi redditi e, ovviamente, minor accumulazione patrimoniale. Lo si poteva fare perché la sua sostenibilità finanziaria era garantita dal «Quantative Easing»(QE): la politica per la quale la Banca Centrale Europea ha tenuto artificialmente bassi i tassi di interesse.
Eha comprato quantità illimitate di titoli del debito pubblico degli stati (tra i quali l’Italia) in difficoltà. Grazie alla Bce negli ultimi anni abbiamo dovuto tenere a bada esclusivamente il deficit, negoziando gradi di «flessibilità» con gli occhiuti controlli della Ue. Ed è in questa prospettiva che per irrobustire la crescita italiana Renzi ha lanciato l’idea di «semplificare» le regole europee (in modo da non dover ottemperare agli impegni assunti col «fiscal compact» di ridurre di un ventesimo all’anno – oltre 50 miliardi di euro!-- la parte di debito eccedente il 60% del PIL) e di ottenere la possibilità di «beneficiare» per cinque anni di un deficit del 3% annuo del PIL. Uno scenario che sta bruscamente per svanire per un corollario delle buone notizie sulla crescita europea, quello dell’ approssimarsi della fine del QE, del momento nel quale la Bce ci toglierà il giubbotto di salvataggio e la gestione dell’enorme debito pubblico ricadrà tutta e solo sulla finanza pubblica italiana. E per fa capire l’aria che tira, il presidente della Bundesbank Jens Weidmann ha già detto che non c’è esigenza reale di estendere il Quantitative easing oltre dicembre 2017. Il debito pubblico, nodo che viene al pettine, sarà tra poco il problema centrale della sostenibilità finanziaria dell’Italia. Servizio del debito, a costi post QE probabilmente crescenti, e impegni da fiscal compact ad una sua riduzione accelerata sono obiettivi da far tremare le vene ai polsi ad ogni istituzione responsabile. Ma, non basta, il problema si complica ulteriormente perché l’Italia ha, paradossalmente, bisogno di contrarre nuovo «debito buono», per sostenere ed irrobustire la crescita del suo Pil, innescando un circolo virtuoso di abbattimento «da denominatore» dei rapporti deficit/Pil e debito/Pil. Il «debito cattivo», figlio di decenni di finanza allegra, di tasse non pagate e di spese incontrollate, va contenuto. Ma non, come sta succedendo di fatto da troppo tempo, continuando a sacrificare l’ammodernamento infrastrutturale del Paese. Un autogoal che colpisce le infrastrutture sociali (come scuole e ospedali) e quelle ambientali (come la difesa del suolo da calamità naturali). Le polemiche di questi giorni sui ritardi nelle ricostruzioni post terremoto o nelle manutenzioni di dighe ed acquedotti ne segnalano solo un capitolo. Ma l’autolesionismo rasenta l’assurdo con i ritardi relativi alle infrastrutture economiche (trasporti, energia, digitali) che stanno limitando l’effetto positivo della fine dello «sciopero degli investimenti» privati e appesantendo i prezzi dei beni esportati. L’aumento della produttività totale dei fattori in Italia - e quindi competitività, reddito e occupazione - è oggi fortemente limitato dal mancato ammodernamento del suo capitale fisso sociale. Dappertutto , ma con una sottodotazione che colpisce crucialmente soprattutto il Veneto e il Nordest di «nuova» industrializzazione, competitiva e in espansione. Urgenza difficile da cogliere perché la crisi finanziaria lunga dieci anni ci ha impedito di accorgerci del salto di paradigma anche infrastrutturale implicito nella globalizzazione dei mercati e nell’accelerazione del progresso tecnico, digitale e non. Nel Veneto questi ultimi sono fenomeni vissuti da protagonisti dalle imprese, ma poco accompagnati dalla politica industriale nazionale e regionale. Abbiamo il bisogno, urgente, di puntare, a ogni livello di governo, su incentivi agli investimenti privati e finanziamento di quelli pubblici, tutti quelli che servono ad una economia che investe per passare all’industria 4.0 e che compete su mercati globali. Questo esige uno sforzo finanziario enorme, dell’ordine di svariate decine di miliardi di dollari annui. Una partita nuova da giocare a Bruxelles per convincere l’Unione europea a definire e seguire una strategia di politica fiscale europea che preveda, finalmente, forme intelligenti di «debito buono europeo». Strategia timidamente prevista dalla Commissione Europea e parte centrale dall’agenda europea di Macron. Una proposta alla quale la Germania potrebbe acconsentire dopo le elezioni del 24 settembre. Perfino il «falco» ministro tedesco Schäuble ha lanciato messaggi in tal senso. Una proposta per la quale l’Italia dovrebbe ora battersi – per il debito - almeno quanto ha fatto negli ultimi anni puntando alla flessibilità – per il deficit —. Ogni altro contenzioso sui trattati europei, oltre che velleitario, sarebbe drammaticamente inefficace.