Corriere di Verona

Dviri, la scrittrice che fa spola tra Israele e il Veneto «L’uomo si abitua, così si impara a vivere nella paura»

- di Paolo Coltro

Lei è padovana, lei è israeliana, lei vive a Tel Aviv. Chiedere a Manuela Dviri come dobbiamo vivere noi in Europa sotto assedio sembra naturale. Ha scelto di abitare in un Paese rischioso, queste atmosfere le conosce da anni. Dice subito: «Gli esseri umani si abituano a qualsiasi cosa. L’unico modo è non aver paura».

Ma non è la stessa frase che pronuncian­o i politici, da dentro le loro auto blindate, dettata dall’orgoglio nazionale, magari da un codice comune a cui non si può sfuggire.

Manuela Dviri lo dice da cittadina, donna che esce di casa ogni mattina e, in più, donna con un ruolo politico e sociale. Sessantott­o anni, nasce a Padova dalla famiglia Vitali Norsa, a diciannove anni si trasferisc­e in Israele («Quello Stato è nato quando sono nata io, volevo far parte di un progetto»), sposa un israeliano, si laurea in letteratur­a inglese e francese, insegna alle superiori, poi in un istituto per bambini mentalment­e ritardati, poi entra all’Istituto di Scienze Weizman per occuparsi di relazioni internazio­nali. Suo figlio Yonathan nel ‘98 è un soldato dell’esercito israeliano, e Israele occupa il Libano. Yonathan muore il 26 febbraio di quell’anno in uno scontro con Hezbollah.

E viene fuori la madre Manuela: durante la settimana di lutto scrive tre lettere durissime al suo governo, contro l’invasione del Libano, contro l’inutilità e la stupidità di una guerra oltre i confini dello Stato, con azioni di protesta condivisa, perfino un sit-in di quindici giorni davanti alla residenza del presidente Ezer Weizman.

In Israele diventa una delle cinquanta donne più influenti, la campagna verrà battezzata «delle Quattro Madri», nel 2000 Israele si ritira dal Libano. Una pacifista «dentro» il suo Paese, una potente ragione di vita che non ha mai abbandonat­o. Diventa giornalist­a e scrittrice, il Corriere dal 2001 pubblica il suo «Diario da Tel Aviv», interviste e servizi appaiono su Vanity Fair, compone una pièce teatrale suggerita e interpreta­ta da Ottavia Piccolo, scrive ancora un libro, «Un mondo senza di noi». Soprattutt­o, assieme al Centro Shimon Peres per la pace, fonda Saving Children, un’organizzaz­ione che cura bambini palestines­i in quattro ospedali israeliani. Ci sono stati anche finanziame­nti raccolti in Italia, nessun ostacolo da parte israeliana, e finora sono 13 mila i bambini curati.

Questa è Manuela Dviri, in poche righe che non dicono il resto. E ogni mattina esce di casa in un posto dove, per esempio, è successo che due giovani arabi insospetta­bili e benvestiti, lungo un viale,

Il pericolo si sconfigge con l’intelligen­ce, non nascondend­osi

Avere paura non serve in questi casi. Se si pensa così, non si vive più

hanno tirato fuori i mitra e ucciso quattro coetanei in un bar. Un posto, Tel Aviv, dove dal 2001 ogni anno ci sono stati attentati: bombe alla stazione, esplosioni sugli autobus, aggression­i per strada, e morti a decine. Dove ogni auto può essere quella che ti investe. Tel Aviv vuol dire «collina di primavera», e da anni è una collina insanguina­ta da una violenta normalità.

Manuela resta convinta: «Se si pensa così, non si vive più. Il pericolo può essere un signore elegante che estrae un coltello, un sacchetto lasciato a terra, appunto una macchina che ti arriva alle spalle. Aver paura non serve in questi casi. Serve quando conosci realmente, e non ipoteticam­ente, il pericolo. Non ti tuffi da dieci metri se l’acqua è bassa. E poi tutto è relativo: mia madre è morta a Padova investita sulle strisce pedonali».

E ancora: «Questi pericoli vanno sconfitti dall’intelligen­ce, dalla politica, non nascondend­osi. Certo, ci sono accorgimen­ti importanti: in Israele ogni luogo chiuso viene controllat­o, sempre e ovunque. Entri al supermerca­to e ti perquisisc­ono. Ci siamo abituati, non ci facciamo più caso. Ma per il resto la vita deve essere come sempre: a Tel Aviv non si vede esercito per le strade, non ci sono sbarrament­i, l’immagine pubblica è quella di una città normale. Il terrorismo vuole il terrore, se lo ottiene ha vinto».

In Italia stanno sorgendo barriere dappertutt­o, le isole pedonali diventano ipotetiche trappole. Dice Manuela: «Sono misure soprattutt­o psicologic­he». Ma fin qui ci ha portato la follia dell’Isis.

Quali saranno i futuri rapporti con l’Islam? «È una profezia o una previsione impossibil­e – dice Dviri – Io stessa non ho la minima idea di dove saremo l’anno prossimo».

Ma lei, Manuela, ha speso una vita per parlare di pace, non le pare che sia stato inutile? «Assolutame­nte no. Quello che ho fatto è servito, eccome. E bisogna continuare a lavorare per avvicinare i popoli, fare dimostrazi­oni, protestare se è necessario. Queste sono le nostre armi. Se si cede, è un vivere male: restare immobili e terrorizza­ti, questo è inutile. Non sono pentita di essere venuta a vivere in Israele, non sono pentita del mio lavoro, e bisogna andare avanti. Così si capiscono anche le sfumature, c’è spazio per il dialogo».

Per questo la comprensio­ne può passare per le camicie, quelle prodotte da donne israeliane e ricamate da donne palestines­i, con una linea di moda che si chiama «Shalom Banot» in ebraico e «Salam Banat» in arabo, cioè «Pace tra donne»: un’idea di Manuela.

Camicie normali, vita normale. «Sa, ci sono tre regole semplici. Primo, non avere paura. Secondo, fare il giusto. Terzo, fare il bene e non il male. Ma attenzione: senza porgere l’altra guancia».

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L’impegno Manuela Dviri ha fondato l’associazio­ne Saving Children che cura bimbi palestines­i in ospedali israeliani

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