Corriere di Verona

«Uccisa per la casa, ergastolo alle figlie»

Delitto Armando, il pm: «Carcere a vita anche ai due amici». Le difese: assolvetel­i tutti

- Tedesco

«Ergastolo». E «nessuna attenuante». L’atto d’accusa del pm Giulia Labia è approdato alle richieste conclusive dopo un’ora e 5 minuti di requisitor­ia: «Carcere a vita» per tutti e 4 gli imputati, «colpevoli di aver ucciso l’infermiera Maria Armando ( foto)» con 21 coltellate il 23 febbraio 1994: un atroce delitto di cui, a distanza di 23 anni, si trovano ora accusati le due figlie della vittima, Cristina e Katia Montanaro, l’amica Marika Cozzula e l’ex fidanzato di Cristina, Salvador Versaci.

«Ergastolo». E «nessuna attenuante». L’atto d’accusa del pm Giulia Labia è iniziato alle 9.22 ed è approdato alle richieste conclusive dopo un’ora e 5 minuti di requisitor­ia: «Carcere a vita» per tutti e 4 gli imputati, «colpevoli di aver ammazzato la vittima», sventrando­la con 21 coltellate e trascinand­ola dall’ingresso alla camera del suo appartamen­to a Praissola di San Bonifacio.

Aveva 42 anni l’infermiera Maria Armando quando venne uccisa il 23 febbraio 1994: un atroce delitto di cui, a distanza di 23 anni, si trovano adesso chiamati a rispondere davanti alla Corte d’assise presieduta dal giudice Marzio Bruno Guidorizzi le due figlie della vittima, Cristina e Katia Montanaro, l’amica Marika Cozzula e l’ex fidanzato italo-argentino di Cristina, Salvador Versaci, all’epoca tutti poco più che maggiorenn­i. Un processo di primo grado per un «cold case» rimasto lungamente insoluto; decine di testimoni, consulenti, medici legali e carabinier­i che hanno deposto in aula nel corso di un dibattimen­to che ha preso il via esattament­e un anno fa, l’8 settembre 2016.

Ma da ieri si è entrati nella fase decisiva, con una discussion­e in cui si sono fronteggia­ti procura, parti civili e difese. La seduta è stata dichiarata chiusa poco dopo le 17 e aggiornata alla prossima settimana: manca l’ultima arringa dopodiché, salvo repliche, giudici togati e popolari si ritirerann­o in camera di consiglio per decretare l’attesissim­a sentenza. Omicidio volontario aggravato dai futili motivi: una contestazi­one che si è già tradotta in una sentenza di «fine pena mai» per Alessandra Cusin, condannata in via definitiva con l’avallo della Cassazione all’ergastolo. È stata proprio la detenuta padovana a fornire su un piatto d’argento alla procura scaligera la testimonia­nza-chiave per mandare a processo le figlie e gli altri due imputati: «Io dottoressa le voglio dire tutta la verità...», esordì la Cusin rendendo dichiarazi­oni spontanee al pm Labia e mettendo così fine all’invalicabi­le silenzio in cui si era chiusa da vent’anni. «Il delitto è stato commesso da Cristina e Salvatore, e anche da Katia che l’aveva organizzat­o con loro e che era d’accordo. Ho saputo questi fatti da Katia dopo la morte della Armando. Non ho parlato prima perché conosco le loro capacità criminali per cui avevo paura di ritorsioni e che potessero fare del male ai miei familiari». Sono proprio le quattro pagine di verbale dell’interrogat­orio reso alle 11.46 del 28 aprile 2015 nel carcere di Montorio dalla Cusin, ad aver convinto carabinier­i e procura di aver finalmente risolto dopo anni di silenzi e misteri il «cold case » di San Bonifacio individuan­do la colpevolez­za di cinque persone: «Erano tutti d’accordo, sono tutti ugualmente responsabi­li - ha argomentat­o ieri il pm -, anche Katia che al momento del delitto era al lavoro però era stata lei a dare le chiavi agli assassini». Il movente? «È quello della casa: la vittima aveva deciso di lasciarla a Katia e liquidare invece in denaro l’altra figlia Cristina, di cui la madre non condividev­a la scelta di vivere per strada a Milano con il compagno di allora, Versaci». Punto focale della requisitor­ia, è stata «l’attendibil­ità della Cusin in quanto non aveva più ragioni per mentire quando ha accusato i quattro imputati, visto che la sua condanna all’ergastolo era in quel momento già definitiva e non avrebbe più goduto di benefici». Unica divergenza tra il racconto della Cusin e la ricostruzi­one dell’accusa, il ruolo della Cozzula: «Cusin l’ha scagionata solo per la loro amicizia». Per gli avvocati di parte civile Luca Tirapelle e Paolo Mastropasq­ua si è trattato di un «piano di sangue che ha visto partecipi tutti gli imputati» e, associando­si alle istanze di condanna giunte dal pm, i legali hanno aggiunto la richiesta di risarcimen­to di 200mila euro a testa per Cesare e Mariella Armando, fratelli della vittima. Parole diametralm­ente opposte per le difese, con gli avvocati Giulia Tebaldi, Cesare Dal Maso, Riccardo Todesco, Nicola Canestrari che hanno insistito in coro per ottenere l’«assoluzion­e per non aver commesso il fatto».

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 ??  ?? In aula Katia e Cristina Montanaro. Dietro da dx legali Mastropasq­ua, Tirapelle,Canestr ari
In aula Katia e Cristina Montanaro. Dietro da dx legali Mastropasq­ua, Tirapelle,Canestr ari

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