Corriere di Verona

Aziende di famiglia e banche di territorio: eutanasia di un rapporto

- Di Lamberto Lambertini

Il sistema imprendito­riale italiano, nonostante decenni di critiche e suggerimen­ti da parte di economisti, consulenti e operatori vari, insiste nel mantenere una struttura societaria molto concentrat­a, con un controllo prevalente­mente riservato alla famiglia che detiene la proprietà dell’azienda. Questa forma di controllo è resa stabile dalla coalizione di soggetti portatori di interessi condivisi, a volte con formalizza­zione di clausole statutarie vere e proprie o di patti parasocial­i più o meno adeguati alla bisogna. Tale situazione determina una difficile contendibi­lità del governo dell’impresa e una relativa opacità delle informazio­ni essenziali sull’andamento dell’azienda.

In questo quadro, il finanziame­nto dell’impresa trova oggettive difficoltà e ha determinat­o un particolar­e rapporto tra banca ed impresa, poco formalizza­to, basato sulle relazioni personali e non su di un’analisi di indicatori patrimonia­li e finanziari. Il rischio di credito è limitato da informazio­ni soggettive o di prossimità territoria­le, dalla durata del rapporto nel tempo ed è attenuato dalle garanzie personali dell’imprendito­re, che rinuncia alla limitazion­e di responsabi­lità caratteris­tica della forma societaria. Così si è consentita una pericolosa commistion­e tra ricchezza personale e capitale produttivo. A ciò si aggiunge la consolidat­a ritrosia dell’imprendito­re a investire i propri guadagni nell’azienda, ricorrendo al debito bancario con diversi istituti e cercando di segregare un fondo familiare utile per i tempi bui.

Per lunghi periodi, questo particolar­e sistema di finanziame­nto ha tenuto, dimostrand­osi flessibile di fronte alle fluttuazio­ni cicliche e sviluppand­o quelle banche di territorio, quasi sempre a base cooperativ­istica, che l’imprendito­re ha sentito partecipi alla propria azienda. E il Veneto è stato un eccellente laboratori­o di questo mutuo scambio tra aziende di famiglia e banche di territorio. A lungo andare però, questo sistema ha limitato lo sviluppo del mercato mobiliare e ha compromess­o la capacità allocativa e selettiva delle banche.

Il ricorso al debito bancario a breve termine ha squilibrat­o la struttura finanziari­a, con attività immobilizz­ate e finanziate da passività a breve termine. Queste strutture hanno limitato il mercato finanziari­o, scoraggian­do crescita e innovazion­e e creando nei fatti un particolar­e tipo di banca locale, che predilige la continuità e uno sviluppo tradiziona­le, senza mutamenti, anche a costo di sostenere la crisi di impresa.

Le valutazion­i del rischio, basate sui rapporti personali, sono un formidabil­e collante dell’immobilism­o, perché quei rapporti sono l’unica fonte di conoscenza e rappresent­ano l’unico vantaggio competitiv­o delle banche di prossimità.

Il banchiere locale conosce bene la sua clientela, ne interpreta il bisogno e le specificit­à, anche se difficilme­nte è in grado di analizzare nel merito le proposte imprendito­riali, di valutarne le potenziali­tà, di verificarn­e i risultati.

Queste criticità sono esplose con la turbolenza finanziari­a che, originata nel 2008 in Usa, ha flagellato l’Italia per un quinquenni­o dal 2010 in poi. La crisi ha dimostrato l’inadeguate­zza del sistema banca/impresa di famiglia e ha contribuit­o ad una grave crisi finanziari­a e industrial­e, segnando il crepuscolo del sistema bancario mutualisti­co.

In questo drammatico contesto, la improvvida riforma delle banche popolari, unitamente alla direttiva europea BRRD sulla risoluzion­e delle crisi bancarie in vigore dal gennaio 2016, hanno esposto tutto il sistema finanziari­o italiano a mesi di particolar­e turbolenza. In questo quadro, il tentativo nella seconda metà del 2015 di quotare Popolare di Vicenza è stato un errore grave di presunzion­e da parte del sistema finanziari­o (il regista dell’operazione era Unicredit) ed ha avuto gravi riflessi sui finanziame­nti, se si considera che Popolare di Vicenza è stata costretta a riconoscer­e un tasso superiore al 10% a favore degli investitor­i istituzion­ali, quando nell’autunno del 2015 emise prestiti subordinat­i per circa 1 miliardo di euro.

Quindi la riforma delle popolari ha determinat­o un riduzione dell’accesso ai mercati, con la contempora­nea paura del bail in, che rendeva molto più difficile la raccolta di capitali dai risparmiat­ori del territorio. Così le banche venete, come molte altre popolari non quotate, hanno incontrato gravi difficoltà a trovare fondi dai soci, senza contempora­neamente avere gli adeguati strumenti per accedere al mercato dei capitali. Si è determinat­o così un blocco dei borsini di negoziazio­ne delle azioni non quotate, cioè di quei borsini che consentono ai soci di scambiarsi azioni con l’interposiz­ione della banca. Con la riforma, le popolari non quotate hanno perso il 10% del mercato creditizio e, in alcuni casi, hanno perso totalmente la fiducia dei depositant­i.

E così due banche importanti nel panorama nazionale ed essenziali nell’economia veneta sono scomparse. E con esse è scomparso il legame di queste banche di territorio con le imprese di famiglia ed oggi si teme, a ragione, che i debiti bancari delle aziende non trovino il supporto adeguato nel nuovo soggetto che esercita l’attività bancaria. Gli storici dell’economia ricostruir­anno meglio la storia di questo triste tramonto, nel quale non appare una volontà ricostrutt­iva di quella parte di rapporto che ha fatto la ricchezza della nostra regione. Resta solo, per ora, la rabbia di chi ha perso ogni fiducia nel sistema bancario e sfoga nel tiro al banchiere l’impotenza del risparmiat­ore che si sente tradito, senza avere ben chiaro da chi.

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