Corriere di Verona

Progetti, ricerche, voti e alla fine le mediane Ecco dove e quando il «giovane» in carriera rischia il baronaggio

- Roberta Polese © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

VENEZIA Quando al termine di un percorso universita­rio che dura in genere cinque anni ( sei, sette o più se si finisce fuori corso) si decide di puntare a una cattedra universita­ria, i giovani studenti dovrebbero armarsi di tre fondamenta­li pre-requisiti: altissima preparazio­ne, grande pazienza e forte passione. Per la maggior parte questo basta. Se si è meno fortunati nella propria carriera tocca fare i conti con la variabile «x»: il barone. Non vale per tutti, non vale sempre, ma le inchieste giudiziari­e dimostrano che baroni ci sono e che bisogna farci i conti. Quando interviene il fattore x? Di solito il suo potere si esercita nelle selezioni.

Con una laurea in tasca la prima selezione che si fa è quella del dottorato. Se si vuole ottenere un dottorato, in qualsiasi disciplina, bisogna redigere un progetto e convincere una commission­e di prof che quel progetto è così innovativo che val la pena investirci. La commission­e dei docenti che lo valuta è formata da tre prof estratti a sorte internamen­te al dipartimen­to, che stila una lista di otto, dieci, quindici nomi. I primi della lista (due o tre al massimo) riceverann­o una borsa di studio di circa 1000 euro al mese. Gli altri lo potranno fare ugualmenri­unione te, ma non verranno pagati. Quando va tutto bene, nella grande maggioranz­a dei casi, l’università sovvenzion­a i progetti meritevoli. Quando va male interviene la variabile «x». «Il barone tenderà a consegnare il dottorato con borsa di studio allo studente che magari ha fatto la tesi con lui, che continuerà a lavorare per lui, producendo ricerche che verranno pubblicate su riviste scientific­he a nome del docente stesso facendogli fare bella figura» dice una giovane universita­ria all’uscita dal Bo, alle prese con i primi gradini che auspicabil­mente la porteranno alla cattedra, dopo aver sputato lacrime e sangue su libri, convegni e favori ai baroni.

Ecco quindi che il dottorato di ricerca è il primo imbuto, il primo tra quei «centri di esercizio del potere di cui un prof dispone senza che vi sia alcun controllo» dice il professor Umberto Curi, editoriali­sta del nostro giornale, ex docente di Storia di Filosofia.

Secondo step: finito il dottorato, dopo tre anni, si può diventare ricercator­i di tipo A (che dura tre anni) o di tipo B (che consente di accedere alla selezione per diventare docente). Anche qui c’è una selezione, si presenta un progetto di ricerca e ci si sottopone alla valutazion­e di una commission­e formata docenti del dipartimen­to nel quale si vuole lavorare. Logica vuole che se il progetto è buono allora si diventa ricercator­i pagati con uno stipendio di 1700 euro al mese. Capita però che il progetto buono non basti, e che qualcuno si veda passare avanti altri dottorandi che magari fanno parte della claque del professore. «Si dice spesso che le discipline giuridiche e quelle

mediche siano le più colpite dal baronaggio, ma non è così – spiega Curi - in tutti i dipartimen­ti ci sono preferenze perpetrate a danno di qualcuno».

Giovani preparati spesso si vedono superare da altri meno qualificat­i ed è anche difficile smascherar­li: la valutazion­e di un progetto scientific­o, seppur scientific­o, è articolata: «Ci sono dei parametri standard che vanno valutati nel contesto generale, come succede in tutto il mondo – spiega Paolo Gubitta ordinario di Organizzaz­ione Aziendale e presidente del corso di laurea triennale in Economia all’università di Padova – la valutazion­e ha sempre un contenuto di soggettivi­tà e l’intervento del barone, quando c’è, è un fenomeno patologico che non è la normalità ». Ecco quindi un altro paletto davanti al quale l’aspirante ricercator­e si deve piegare. Lo status di ricercator­e di tipo B, più difficile da ottenere e che prelude alla selezione per l’abilitazio­ne a docente associato o ordinario, può durare molti anni e sono anni decisivi: si devono pubblicare le proprie ricerche su riviste scientific­he (se si è bravi ce la si fa da soli, ma di solito il barone spinge il «protetto» o mette i bastoni tra le ruote al protetto di un altro, a seconda delle preferenze). Quando si arriva alla selezione nazionale per diventare docenti (quella al centro dell’inchiesta di Firenze ndr) a differenza degli altri imbuti contano le «mediane»: «Le mediane sono state introdotte dalla legge Gelmini, e sono skills, obiettivi, oggettivi che nel curriculum bisogna avere per forza, come il numero di pubblicazi­oni o citazioni nelle riviste». Nonostante la selezione sia nazionale spesso essere solo bravi non basta. I cattivi commissari fanno i conti della serva: conviene che fuori ci siano docenti bravi? O conviene che ci siano docenti funzionali al sistema messo in piedi dal barone che scegliendo «i suoi protetti» dimostra alla comunità scientific­a il peso del suo potere? «A muovere il baronaggio è quasi sempre il potere fine a se stesso» spiega ancora Curi. «Gli antidoti a questo sistema malato ci sono, sono stati imposti per legge - aggiunge ancora Gubitta - la turnazione delle commission­i, l’inseriment­o di elementi per valutazion­i oggettive servono ad arginare l’eccesso di soggettivi­tà delle decisioni dei singoli professori, le cose sono cambiate rispetto a 20 anni fa e vanno nella giusta direzione». Il professor Curi è meno ottimista e più tranchant: «I docenti scelgono i propri successori per cooptazion­e, quasi mai per merito sostiene - bisognereb­be annullare i concorsi: che i prof scelgano i propri pupilli alla luce del sole, e che se ne prendano la responsabi­lità in caso di incapacità e fallimento, nasconders­i dietro a concorsi truccati non serve a nulla». Per il prof il concorso pubblico è solo un puro atto di ipocrisia.

Curi La forza dei baroni sta nei centri di potere non controllat­i dal sistema

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Ca’ Foscari Test d’accesso alla facoltà di Economia, nella sede di San Giobbe

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