Le «baciate», le ispezioni: due anni di indagini
VICENZA Le operazioni «baciate», le ispezioni della Banca centrale europea, gli interrogatori. In due anni di indagini gli investigatori hanno ricostruito lo scandalo del tracollo dell’ex Popolare. Le accuse e le difese.
«Qualcuno ha cercato di risolvere i problemi con delle scorciatoie...».
È lo scorso 22 marzo, quando Gianni Zonin fa mettere a verbale queste parole. Di fronte a lui ci sono Gianni Pipeschi e Luigi Salvadori, i magistrati che da ormai due anni stanno indagando sul suo conto. È appena iniziato il primo dei tre interrogatori ai quali si sottoporrà l’ex presidentissimo della Popolare di Vicenza. Sembra quasi un’ammissione, visto che lui stesso spiega che per «scorciatoie» intende «il ricorso alle cosidette operazioni baciate». Ma subito corregge il tiro, e dice di averne sentito parlare «per la prima volta solo durante il mio incontro con l’ispettore della Bce Emanuele Gatti a Milano, il 7 maggio del 2015. Il pomeriggio stesso sono tornato a Vicenza e ho consigliato al dg Sorato di dare le dimissioni...».
L’accusa sta tutta lì. Per la procura Zonin sapeva delle «baciate», ovvero del fiume di denaro che fu prestato agli azionisti in cambio dell’acquisto di titoli Bpvi. È illegale se poi non si provvede a comunicarlo agli organi di vigilanza, perché finisce con il far apparire solida una banca che, in realtà, utilizza i propri soldi per sostenere gli aumenti di capitale. Più che un giochetto, un «ricatto»: a sentire i risparmiatori, per ottenere un mutuo (per l’acquisto della casa, ad esempio) erano obbligati ad accollarsi anche un pacchetto di azioni.
Gli investigatori l’hanno ribattezzato «Fattore K», e recitava così: «Le azioni Bpvi detenute dalle persone affidate scrivono i finanzieri - non doveva essere inferiore al 10 per cento del finanziamento accordato». E questo principio si applicava a ogni singola filiale del Gruppo. In una e-mail inviata da Claudio Giacon, all’epoca responsabile della direzione regionale, si legge che «è tassativo pretendere che tutti i clienti affidati debbano essere nostri soci». Il risultato? La concessione di finanziamenti correlati all’acquisto di azioni, in Bpvi arrivò a toccare quota un miliardo e 86 milioni di euro.
Con dei piedi d’argilla, bastò la crisi economica a far crollare il gigante vicentino. «Aziende e famiglie hanno avuto maggiore necessità di liquidità - ricorda Zonin ai pm - con la conseguenza che le richieste di vendita delle azioni Bpvi sono incrementate». E visto che nessuno comprava più, presto i titoli divennero incedibili (tranne che per pochi fortunati, che custodivano in cassaforte una lettera che impegnava la banca al riacquisto), senza contare che la stima di 62,5 euro era gonfiata. In realtà, dicono gli esperi della procura, ogni azione valeva una ventina di euro al massimo. E ora è cartastraccia, con buona pace dei 94mila soci che nel crack dell’istituto berico hanno perso tutto.
Restano da stabilire le colpe. La procura chiama in causa presidente, direttore generale, i vice, un consigliere di amministrazione e diversi manager. Finora sono sette gli indagati per i quali si chiede il processo, ai quali si aggiunge la stessa banca per violazioni amministrative.
Difficile prevedere come andrà a finire. Zonin si dichiara all’oscuro di tutto: sostiene che all’interno della banca ci fosse una sorta di «cupola» che agiva nell’ombra ed era formata dall’ex direttore generale Samuele Sorato e dal suo vice Emanuele Giustini. Loro soltanto erano i burattinai delle baciate, al punto che misero a tacere anche Massimo Bozeglav, l’ex responsabile dell’Internal Audit di Bpvi (l’organo interno di vigilanza) che aveva rilevato le operazioni anomale orchestrate dai vertici dirigenziali.
Sorato ribalta le accuse: dice che nell’istituto non si muoveva una foglia senza il
Zonin Qualcuno ha cercato di risolvere i problemi con delle scorciatoie. Intendo dire con le baciate...
consenso di Zonin, figuriamoci un miliardo di euro. E così fanno tutti gli altri indagati, ciascuno pronto a scaricare le colpe sull’altro. Perfino c’è chi (Paolo Marin, responsabile della Divisione Crediti di PopVicenza), sostiene di aver sempre pensato che le baciate fossero legali visto che «nel 2012 ho fornito agli ispettori, in assoluta serenità, una lista dei principali soggetti affidati e del numero di azioni della Banca da loro acquistate attraverso i finanziamenti». Tradotto: Bankitalia sapeva da anni e non avrebbe mosso un dito fino al 2015.
In questi giorni c’è stata una nuova sfilza di interrogatori che però, come spiega il procuratore capo Antonino Cappelleri, «non hanno portato elementi decisivi per un proscioglimento». Per questo, ieri la procura ha chiesto il rinvio a giudizio dei sette manager ipotizzando i reati di aggiotaggio e ostacolo all’attività degli organi di Vigilanza.
A dirla tutta, diversi mesi fa i magistrati avevano anche tentato di sequestrare 106 milioni di euro ad alcuni degli indagati, ma il provvedimento si era arenato dopo che un giudice di Vicenza aveva sostenuto che un reato (che coinvolge la Consob) è di competenza di Milano. Deciderà la Cassazione nelle prossime settimane, e finalmente a quel punto anche gli altri filoni investigativi potrebbero confluire in un unico maxi-processo.
Nel frattempo agli ex vertici di PopVicenza non resta che attendere. Ciascuno con le proprie preoccupazioni. Come quella che manifestò Sorato mentre Zonin lo licenziava: «L’unica cosa che mi disse raccontò il presidente ai pm - è stata: “E adesso io che lavoro faccio?”».