Se la lettura si «plastifica» Contro il trionfo del digitale
Cultura umanistica e tecnologia nel pamphlet di Tomasin Una critica agli eccessi della mentalità hi-tech per una nuova maturità nell’uso dei mezzi. Il rischio di perdere patrimoni e capacità a causa di scelte radicali
Pubblichiamo in anteprima una pagina dal volume di Lorenzo Tomasin «L’impronta digitale. Cultura umanistica e tecnologia», Carocci, pagg. 144, 12 euro, in libreria da domani. Il volume sarà presentato il 2 novembre alle 17.30 all’Ateneo Veneto da Giovanni Montanaro, Filippomaria Pontani e Andrea Rinaldo.
Perché mai nel campo della trasmissione culturale l’introduzione di una novità tecnica dovrebbe implicare, assieme al suo incondizionato accoglimento, anche la completa sostituzione del nuovo mezzo con ciò che l’ha funzionalmente preceduta?
Il vero problema non sta, in effetti, nell’innovazione, ma nel radicalismo totalizzante con cui alcune innovazioni vengono proposte, che fa dubitare della loro stessa ragionevolezza.
La cosiddetta rivoluzione digitale di biblioteche e archivi somiglia sotto quest’aspetto a un’altra innovazione che, pur essendo poco meno recente, riusciamo forse a osservare con maggiore distacco, traendone qualche insegnamento. Si tratta dell’introduzione delle materie plastiche come materiali sostitutivi di quelli tradizionali per la produzione di una quantità enorme di oggetti della vita quotidiana. Quasi la loro totalità. La plastica, ritrovato utilissimo con cui l’uomo fabbrica una gamma immensa di cose, utili e inutili, che usiamo di continuo, è talora impiegata per realizzare oggetti che senza di essa non potrebbero nemmeno esistere: questo materiale portentoso è forse l’unica invenzione umana a poter competere con l’informatica sul piano della rapidità di diffusione, della pervasività e della concreta utilità dei prodotti che ne derivano. Se la vita dell’uomo contemporaneo è ormai inimmaginabile in molte sue funzioni senza il supporto di un mezzo informatico, essa avrebbe un aspetto molto diverso anche se non esistessero, o fossero realizzati con altri materiali, gli innumerevoli oggetti di plastica che ormai ci circondano. Provate, ho chiesto una volta ai miei studenti, a cancellare dall’immagine che avete in questo momento nel vostro sguardo, tutti gli oggetti di plastica. A qualche decennio di distanza dalla sua introduzione nella vita dell’uomo, l’utilità universale, l’economica disponibilità e l’ubiqua presenza della plastica non ci impediscono di scorgere le ragioni per le quali una sua indiscriminata proliferazione nella biosfera avrebbe esiti negativi di gran lunga superiori a quelli positivi. Con la conseguenza che se pure nessuno sarebbe così stolto da predicarne l’eliminazione, quasi nessuno, forse, sarebbe altrettanto stolto da pensare che sia ragionevole oggi concentrare gli sforzi della comunità umana sulla sua sostituzione integrale ai materiali tradizionali e non piuttosto su un bilanciamento – molto più sostenibile – tra essa e altri supporti. Arrivare a pensare che il sapere digitalizzato possa semplicemente e del tutto rimpiazzare quello anteriore, rendendo inutili le biblioteche tradizionali, è un po’ come illudersi che l’esistenza della plastica renda per sempre superati legno, metallo, vetro e altri arcaici materiali. Vista da questo punto d’osservazione, l’oltranza tecnologica che pervade tanta parte del discorso (anche politico) odierno perde gran parte del suo fascino eroico.
Perlomeno fino al giorno in cui l’uomo avrà trovato il modo di evitare che gli innumerevoli contenitori di plastica che disperde nell’ambiente provochino un danno ambientale incalcolabile, l’umile carta si è oggi adattata a contenere, in sacchetti e involucri che possono fregiarsi della qualifica di «ecologici», i prodotti necessari al sostentamento fisico di ogni giorno, in forma parallela, ma non meno preziosa, a quella assicurata dall’arrogante – e pure ormai indispensabile – efficacia dei contenitori in plastica.
L’immagine ha naturalmente un valore simbolico che sarebbe forzato spingere troppo oltre. Ma è un dato di fatto che una certa tendenza al massimalismo appare piuttosto pronunciata in coloro che predicano la necessità di una concentrazione degli investimenti pubblici e delle grandi strategie politiche sul potenziamento della cultura tecnologica.