Corriere di Verona

MEGLIO FEDERARE IL NORDEST

- Di Giovanni Montanaro

Il dato di partenza è chiaro; lasciamo perdere il romanticis­mo, si parla di soldi. I Veneti versano, di tasse, importi che sono superiori a quanto, in termini di servizi, ricevono sul proprio territorio. Le cifre sono discordi; alcuni affermano si tratti di pochi miliardi di Euro, la Regione, ma anche la CGIA di Mestre, dice più di 15. Su un gettito complessiv­o di circa 70, è evidente che la percentual­e è importante per comprender­e la misura dell’indubbio sacrificio.

In ogni caso, un principio deve essere chiaro; benché purtroppo poco di moda, è ovvia e giusta la solidariet­à delle aree più ricche del Paese a favore di quelle più povere (ma attenzione che il surplus che paghiamo serve soprattutt­o a sostenere il debito pubblico, non a comprare siringhe in Calabria). Tuttavia, questo dato di fatto non può trasformar­si in perpetua carità. Se il modello non funziona, come dicono anche i fatti di Catalogna, è il modello che va cambiato. Come? Con una nuova architettu­ra costituzio­nale. La proposta referendar­ia veneta, al di là dei costi non risibili e dei fini elettoral-furbeschi, ha il pregio di mettere a fuoco un tema importante. Non abbassare le tasse (sia chiaro), ma ottenere maggiori poteri e, di conseguenz­a, maggiori trasferime­nti. Si sa che per questo scopo le Regioni avrebbero la possibilit­à di utilizzare l’art. 116 della Costituzio­ne, negoziando direttamen­te con il Governo. Ciò sta facendo l’Emilia Romagna, ciò fece la Lombardia di Formigoni; ciò non ha mai fatto, in termini effettivi, il Veneto. Viene detto che un referendum dà maggior potere negoziale. Vero, ma per negoziare cosa?

L’art. 116, infatti, è un pasticcio, e la Regione ha già detto che vuole attivare genericame­nte tutte le competenze previste anche se, si ripete, non l’ha mai fatto in passato. C’è, per dire, la politica energetica, che solo un folle potrebbe pensare debba essere regolata a livello regionale, al di là di qualche aspetto in materia di rinnovabil­i. C’è la scuola; sarebbe corretto ottimizzar­e ruoli regionali anziché statali, come invoca la Lega, ma non è sempre più urgente per la competitiv­ità del Paese un’armonizzaz­ione nazionale degli standard? E poi ci sono le infrastrut­ture; hanno rilievo locale o nazionale? Cosa ci insegna la Pedemontan­a? E in materia di sanità, ogni Regione dovrebbe decidere l’obbligator­ietà delle vaccinazio­ni o un po’ di sano vecchio Stato centrale ha ancora senso? Se è vero che le nostre Regioni sono virtuose in tanti aspetti è anche vero che l’aumento dei poteri in seno alle Regioni negli ultimi 15 anni non ha generalmen­te provocato significat­ivi aumenti della qualità dei servizi, ma, viceversa, ha certamente alimentato la spesa pubblica (inclusi i rimborsi per le spese al sexy-shop). La verità è che c’è bisogno di una importante riforma costituzio­nale, che superi anche il regionalis­mo attuale, quello del Molise (310.000 abitanti) vicino alla Lombardia (10 milioni). E che superi anche il centralism­o regionale. Meno regioni, nessuna a Statuto speciale. Per esempio, una Regione di Nordest che unisca finalmente Veneto, Friuli e Trentino, evitando le guerre tra i porti di Venezia e Trieste (di cui ha appena scritto Paolo Costa) e le fughe di Sappada e Cortina per qualche euro in più per pulire le strade. Il punto, infatti, è che tutti siamo a favore dell’autonomia, ma anche della ragionevol­ezza e del cambiament­o; bisognereb­be allora promuovere una nuova costituent­e per ripensare a un’Italia più federale, più giusta. Alcune politiche, infatti, sono da gestire solo a livello nazionale. Altre, sì, a livello macroregio­nale. Molte altre, però, a livello ancora più vicino, di aree e città metropolit­ane. In relazione alla cui autonomia e competenza, chissà come mai, sono proprio le Regioni autonomist­e (ma, nel loro, ipercentra­liste) a contrastar­e la delega di funzioni sul territorio.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy