MEGLIO FEDERARE IL NORDEST
Il dato di partenza è chiaro; lasciamo perdere il romanticismo, si parla di soldi. I Veneti versano, di tasse, importi che sono superiori a quanto, in termini di servizi, ricevono sul proprio territorio. Le cifre sono discordi; alcuni affermano si tratti di pochi miliardi di Euro, la Regione, ma anche la CGIA di Mestre, dice più di 15. Su un gettito complessivo di circa 70, è evidente che la percentuale è importante per comprendere la misura dell’indubbio sacrificio.
In ogni caso, un principio deve essere chiaro; benché purtroppo poco di moda, è ovvia e giusta la solidarietà delle aree più ricche del Paese a favore di quelle più povere (ma attenzione che il surplus che paghiamo serve soprattutto a sostenere il debito pubblico, non a comprare siringhe in Calabria). Tuttavia, questo dato di fatto non può trasformarsi in perpetua carità. Se il modello non funziona, come dicono anche i fatti di Catalogna, è il modello che va cambiato. Come? Con una nuova architettura costituzionale. La proposta referendaria veneta, al di là dei costi non risibili e dei fini elettoral-furbeschi, ha il pregio di mettere a fuoco un tema importante. Non abbassare le tasse (sia chiaro), ma ottenere maggiori poteri e, di conseguenza, maggiori trasferimenti. Si sa che per questo scopo le Regioni avrebbero la possibilità di utilizzare l’art. 116 della Costituzione, negoziando direttamente con il Governo. Ciò sta facendo l’Emilia Romagna, ciò fece la Lombardia di Formigoni; ciò non ha mai fatto, in termini effettivi, il Veneto. Viene detto che un referendum dà maggior potere negoziale. Vero, ma per negoziare cosa?
L’art. 116, infatti, è un pasticcio, e la Regione ha già detto che vuole attivare genericamente tutte le competenze previste anche se, si ripete, non l’ha mai fatto in passato. C’è, per dire, la politica energetica, che solo un folle potrebbe pensare debba essere regolata a livello regionale, al di là di qualche aspetto in materia di rinnovabili. C’è la scuola; sarebbe corretto ottimizzare ruoli regionali anziché statali, come invoca la Lega, ma non è sempre più urgente per la competitività del Paese un’armonizzazione nazionale degli standard? E poi ci sono le infrastrutture; hanno rilievo locale o nazionale? Cosa ci insegna la Pedemontana? E in materia di sanità, ogni Regione dovrebbe decidere l’obbligatorietà delle vaccinazioni o un po’ di sano vecchio Stato centrale ha ancora senso? Se è vero che le nostre Regioni sono virtuose in tanti aspetti è anche vero che l’aumento dei poteri in seno alle Regioni negli ultimi 15 anni non ha generalmente provocato significativi aumenti della qualità dei servizi, ma, viceversa, ha certamente alimentato la spesa pubblica (inclusi i rimborsi per le spese al sexy-shop). La verità è che c’è bisogno di una importante riforma costituzionale, che superi anche il regionalismo attuale, quello del Molise (310.000 abitanti) vicino alla Lombardia (10 milioni). E che superi anche il centralismo regionale. Meno regioni, nessuna a Statuto speciale. Per esempio, una Regione di Nordest che unisca finalmente Veneto, Friuli e Trentino, evitando le guerre tra i porti di Venezia e Trieste (di cui ha appena scritto Paolo Costa) e le fughe di Sappada e Cortina per qualche euro in più per pulire le strade. Il punto, infatti, è che tutti siamo a favore dell’autonomia, ma anche della ragionevolezza e del cambiamento; bisognerebbe allora promuovere una nuova costituente per ripensare a un’Italia più federale, più giusta. Alcune politiche, infatti, sono da gestire solo a livello nazionale. Altre, sì, a livello macroregionale. Molte altre, però, a livello ancora più vicino, di aree e città metropolitane. In relazione alla cui autonomia e competenza, chissà come mai, sono proprio le Regioni autonomiste (ma, nel loro, ipercentraliste) a contrastare la delega di funzioni sul territorio.