Ronca contro Turco I lunghi anni di guerra del pandoro veronese
La mattina del 10 novembre scorso - quindi quasi un anno fa - si intitolavano i giardini Raggio di Sole a Domenico Melegatti. Sindaco, scolaresche e bandiere per celebrare degnamente colui che ha regalato il Pandoro all’Italia. «Una felice storia veronese», si inorgoglivano i partecipanti alla cerimonia. Verissimo, se si guarda alla fama imperitura del dolce natalizio. Aggettivi sbagliati, se si scopre quanto (metaforico) sangue hanno fatto scorrere gli eredi del fondatore in tutti questi anni. Di incubo, in questo caso, bisogna parlare. Di Capuleti e Montecchi al profumo di burro, farina e zucchero.
La storia è lunga assai. L’avvocato Emanuela Perazzoli, l’attuale presidente, un paio di anni fa la metteva così a Maria Silvia Sacchi del Corriere della
Sera: «Qui hanno sempre litigato. Lo facevano i nonni, poi lo hanno fatto i padri e ora proseguono i nipoti». Il conto finale però arriva adesso: produzione bloccata, operai in cassa integrazione, azienda ad un passo dall’insolvenza. Come si è arrivati a tutto questo?
Fondatore
La genealogia parte da Domenico, il pasticcere di corso Porta Borsari che inventò il dolce alto, soffice e a forma di stella, così buono da stupire subito i suoi concittadini. Era il 1894. Fece in fretta ad imporsi, si allargò ma non aveva eredi diretti. La ditta finì nelle mani di una nipote, Irma Barbieri. E fu il marito di quest’ultima, Virgilio Turco, a dare il primo impulso industriale, mettendosi alla guida della fabbrica, che stava appunto in via Raggio di Sole. La coppia ebbe quattro figli; di questi, una femmina, Carolina, con il suo matrimonio pose le premesse per il secondo ramo di eredi: i Ronca. Due pattuglie di azionisti che, negli anni, si ritrovarono a gestire una convivenza già difficile per sua natura: 50% di quote per parte, obbligo di firma congiunta per tutti gli atti societari. Roba che paralizza. E che di solito porta alle contese.
Il blitz
E infatti così è stato. I colpi di cannone esplodono pubblicamente intorno al 2007, quando la Perazzoli, vedova di Salvatore Ronca, il presidente di Melegatti scomparso due anni prima, acquista altre quote (e così fa anche un’altra erede, Giliola Ronca) da alcune socie del ramo Turco. Si rompe un equilibrio. Prevale una parte sull’altra, e si mettono a tacere le voci sulla vendita dell’azienda ai Varasi, che controllano il marchio emiliano Battistero. Vendita contro la quale la compagine perdente in Melegatti, quella che fa capo a Michele Turco con i fratelli, si batte allo strenuo. Il logoramento porta all’estromissione di quest’ultimo, storico responsabile della produzione, che sarà definitiva nel 2012. La Perazzoli governa da presidente con ampie deleghe, e della vendita a Battistero si perdono le tracce (il marchio emiliano va in malora nel 2014, fra l’altro).
La crisi finanziaria
Melegatti torna a far parlare di sé più per qualche campagna pubblicitaria discussa che per le vicende societarie. Ma in condizioni simili l’uragano prima o poi torna, ed è quello che stiamo vivendo. Proviamo a mettere in fila un po’ di fatti recenti: si inaugura nel febbraio di quest’anno lo stabilimento di San Martino Buon Albergo, 15 milioni dichiarati di investimento e capacità produttiva di «35 mila croissant all’ora», così recitano i peana aziendali. È il caposaldo di una strategia annunciata da tempo, cioé la diversificazione rispetto ai prodotti di ricorrenza come il pandoro, a basso margine di profitto. Peccato però che i cornetti non li farà nessuno. Succedono, a catena, le seguenti cose: Ferrero, il colosso mondiale che ha pronta la commessa da affidare alla Melegatti, indispettito da alcuni ritardi e - stando a sentire gli avversari di lei - dagli atteggiamenti della Perazzoli, si ritira e straccia le intese contrattuali. I finanziamenti per la nuova linea produttiva si dissolvono e, tanto per complicare ulteriormente le cose, l’esposizione personale della presidente viene ceduta da Unicredit nell’ambito della nota mega-operazione sugli Npl. Viene a mancare l’ossigeno da tutte le parti, fino alla paralisi produttiva.
L’altro ieri, come abbiamo riportato su questo giornale, Michele Turco è uscito allo scoperto insieme al fratello Francesco, promettendo il ribaltone e le risorse necessarie al rilancio. Con lui, una cordata di finanziatori e imprenditori. «C’è anche qualcuno del settore alimentare, anche se non fa pandori», si limita ad aggiungere il giorno dopo. È assistito dall’avvocato Carmine Canonico, che insiste su un punto: «Non è mai stato depositato il bilancio del 2016. Non è stata data risposta alle nostre richieste di convocazione dell’assemblea dei soci. A questo punto, codice alla mano, la faremo convocare dal presidente del tribunale. E avviamo l’azione di responsabilità nei confronti di tutto il consiglio di amministrazione». Cda che è scaduto, e che Michele Turco conta di cambiare radicalmente, riportando il timone societario tra le sue mani.
Battaglia legale
Un po’ di scetticismo viene naturale, se si confrontano i tempi abituali di questi duelli legali con la feroce necessità di fare in tempo utile per salvare la produzione natalizia (subito) e tutta la Melegatti (nei prossimi mesi). Antonio Coeli di Pkf, che cura da advisor il tentativo di contro-scalata dei Turco, fa comunque professione di ottimismo: «Contiamo di far convocare l’assemblea a giorni, già questa settimana. Poi rapidamente possiamo mettere in campo il nostro piano di rilancio: la crisi è tutta interna alla compagine societaria, ma la posizione finanziaria (si è parlato di una quarantina di milioni a fronte di 70 milioni di ricavi, ndr) non è grave come si crede e il marchio è molto forte, ancora più all’estero. Noi siamo pronti».
La storia Il fondatore senza eredi, i due rami familiari e nel 2007 la grande frattura La battaglia di oggi La cordata di Michele Turco tenta il ribaltone «Subito assemblea poi il piano di rilancio»