Ala del carcere rifatta da detenuti (e agenti) «I mostri non esistono»
«Non volevamo parlare solo di carcere, ma più in generale dell’intera società, e così facendo abbiamo proprio stravolto il modo di raccontare l’esperienza dei detenuti». Ornella Favero riassume così l’esperienza a Ristretti Orizzonti, la rivista pubblicata dai detenuti del carcere Due Palazzi di Padova che in questi giorni festeggia i suoi primi vent’anni di vita, fondata e diretta proprio dalla Favero, giornalista e presidente da due anni dei volontari italiani che ruotano attorno alle carceri e riuniti nella Conferenza nazionale volontariato e giustizia.
Ieri il carcere ha aperto le porte e ha festeggiato con ospiti prestigiosi, dal magistrato Gherardo Colombo allo scrittore Carlo Lucarelli, la ristrutturazione del primo piano dove sono ospitati i laboratori e la biblioteca. Spazi ai quali detenuti e agenti hanno lavorato per un anno, fianco a fianco, improvvisandosi muratori e pittori, e diventati ora colorati e luminosi.
Come è nata l’idea di fondare la rivista Ristetti Orizzonti?
«Per puro caso. Ero stata invitata per una lezione ai detenuti sull’informazione. Alcuni di loro mi hanno chiesto se volessi aiutarli a mettere in piedi una rivista. E così abbiamo fatto».
Perché i detenuti scelgono di lavorare con voi?
«Molti ammettono di rivolgersi a noi solo per ottenere un permesso premio. Ma va bene così. L’importante è dare loro un’opportunità per mettersi in discussione. Ci sono stati successi e ci sono state anche molte cadute. Ma almeno il tentativo c’è. È un percorso doloroso. In genere i detenuti cercano di non affrontare il passato. Poi però…».
Però cosa?
«Però iniziano a confrontarsi con quanto fatto. Una volta un detenuto mi ha detto che, ogni volta che si trova di fronte uno studente, vede i suoi figli e pensa con paura al momento
in cui sarà costretto a spiegare loro tutti i guai combinati, senza più alibi».
E lei è cambiata dal rapporto con loro?
«Ho la responsabilità di essere l’adulto credibile. E poi c’è la consapevolezza di quanto poco ci voglia per passare dalla parte del torto. Ricordo un genitore che aveva seguito la figlia durante un incontro con gli studenti. A fine giornata ha confessato di non essersi mai reso conto di quanto lui, facile alla rabbia, fosse stato vicino a oltrepassare il limite e a rovinarsi».
Nel Due Palazzi sono passati molti detenuti, tra cui Felice Maniero, Tommaso Buscetta, Giuseppe Salvatore Riina. C’è una storia che le è rimasta particolarmente impressa?
«Ce ne sono state tantissime. Forse una di queste è quella di Marino Occhipinti (che sta scontando l’ergastolo per uno degli omicidi della Uno bianca, ndr). È una persona che ha fatto un percorso faticoso e sta cercando di riprendersi. Perché non esistono mostri, ma persone che hanno compiuto cose mostruose».
Come è cambiato il carcere in questi venti anni?
«Questo è un argomento che mi provoca sempre un po’ di scoramento. Oggi è ancora diffusa l’opinione che il carcere sia una cosa “altra” che non ci riguarda. E quindi è una realtà da tenere chiusa, possibilmente gettando via le chiavi delle celle, e ogni volta che si fa un passo in avanti, se ne fanno tre indietro».
Ultimamente il Due Palazzi è stato al centro di inchieste. L’ex direttore Salvatore Pirruccio è indagato per falso in atto pubblico perché avrebbe favorito alcuni detenuti che lavoravano nelle coop. Telefonini e droga sono stati fatti arrivare tra le mani dei detenuti. Le associazioni di volontariato sono state tirate in ballo. Come risponde a queste critiche?
«Molti ci hanno attaccato perché un carcere più aperto non è sicuro. Ma non è così. L’apertura che creiamo noi non c’entra nulla e anzi, se le condizioni fossero più umane, allora non ci sarebbero questi episodi».