SERVE UNA «NAJA» PER GLI IMMIGRATI
La rivolta dei migranti usciti dalla base di Cona non ha avuto conseguenze drammatiche solo grazie alla professionalità del prefetto di Venezia Boffi , alla collaborazione del Patriarca Moraglia e dei tanti volontari che anche in questa occasione hanno testimoniato la solidarietà dei veneti verso i meno fortunati. Ma la tentata «marcia su Venezia» ha messo drammaticamente in evidenza le falle del sistema di accoglienza italiano e il mancato superamento della logica emergenziale che lo ha finora caratterizzato. Falle provocate dall’assurdità organizzativa di distribuire gli immigrati su tutto il territorio nazionale; e in una frammentarietà di strutture, nella maggior parte temporanee, individuate con la corresponsabilità forzata delle comunità locali.
Ma la falla più grave è concettuale. E sta nell’immaginare di essere ancora di fronte ad una emergenza temporanea. Emergenza che si potrebbe considerare tale se avessimo a che fare solo con rifugiati - coloro che scappano dal loro paese per sfuggire a violazioni dei diritti umani - e non anche con migranti economici, quelli che cercano in Europa opportunità di lavoro e di benessere non ottenibili nei loro paesi di nascita.
Non è questo il caso dell’Italia, dove la maggior parte dei richiedenti asilo diversamente da quanto accade nel resto d’Europa - viene dall’Africa sub-sahariana (Nigeria, Gambia, Mali, Senegal ): origine che rende difficile la separazione dei due fenomeni. Se il flusso dei rifugiati potrebbe ancora esser trattato come un fatto emergenziale, temporaneo, (ma chi può scommettere su un imminente spegnimento di tutti i focolai di instabilità mondiale?), i migranti economici costituiranno invece un fatto strutturale, persistente, almeno per tutto il secolo a venire. Un fatto che sta a noi subire come minaccia o trasformare in opportunità. Perché se da domani dovessimo chiudere le frontiere italiane ad ogni flusso migratorio (non accettando alcuno straniero, ma anche impedendo ai nostri giovani di cercare lavoro all’estero e agli anziani di andare a godersi la pensione in Portogallo) la popolazione italiana perderebbe in cinquant’anni il 25% della sua consistenza passando dai 60 milioni di oggi ai 43 milioni del 2066. Le conseguenze drammatiche di questa tendenza si presenterebbero ben prima con un ulteriore declino della crescita e della nostra competitività, oltre che con l’insostenibilità finanziaria dell’intero sistema di welfare.
Il dramma è evitabile (stime Istat), nel senso che perderemmo solo il 12% della popolazione (7,5 milioni di abitanti in meno nel 2066), solo con un flusso di immigrati dall’estero di almeno 300 mila unità all’anno (sperando che gli emigrati italiani verso l’estero non superino le 130.000 unità annue). Nello stesso periodo l’Africa è, e rimarrà, in pieno boom demografico, con il Sub Sahara che nello stesso periodo più che raddoppierà la sua popolazione superando i 2 miliardi e mezzo di abitanti (sì 2,5 miliardi!). E’ evidente la necessità di puntare a contenerne la spinta alla emigrazione verso l’Europa con un piano di aiuti proporzionato – e, purtroppo, ben superiore ai 50 miliardi di euro che il Presidente del Parlamento europeo Tajani ha proposto all’Unione Europea di mobilitare: la Cina, per capirsi, si sta muovendo fuori dei suoi confini in Africa ed Asia con piani del valore di oltre un trilione di dollari! — Ma anche così un travaso di popolazione dall’Africa in espansione demografica e l’Europa in crisi di popolazione è nell’ordine delle cose.
Che fare dunque? Come gestire il fenomeno? La via è obbligata. Esercitare, quanto più possibile in sede coordinata comunitaria, il diritto, sancito dai trattati europei, di ogni stato membro dell’Unione a determinare il volume di ingresso nel proprio territorio dei «cittadini di paesi terzi, provenienti da paesi terzi, allo scopo di cercarvi un lavoro dipendente o autonomo». Nel caso dell’Italia questo vorrebbe dire fissare noi, non farcelo imporre, il volume di 400.000 immigrati annui ( comprensivi dei rifugiati, che purtroppo continueranno a lasciare le aree di instabilità) che servono per mantenere i nostri equilibri demografici Ma, e qui si ritorna a Cona, questo significa riorganizzare il sistema di accoglienza nazionale in modo ordinato e permanente per usare il tempo e i modi del processo di accoglienza per preparare i migliori candidati all’integrazione. Una sorta di «naja» per candidati neoitaliani. Magari realizzata ricostruendo l’organizzazione, le procedure e la logistica con la quale fino a qualche tempo fa si gestiva la leva militare obbligatoria dei nostri giovani. Un volume di 400.000 persone, dello stesso ordine di grandezza di una classe di diciottenni italiani, da far passare ogni anno attraverso un efficiente sistema di accoglienza. Formare, impiegandoli in modo utile, 400.000 nuovi italiani ogni anno, ad un costo non diverso da quello oggi «sperperato» in un sistema di accoglienza raffazzonato, è una sfida all’altezza delle possibilità del paese oltre che delle sue necessità.