I nodi ci sono. Ma la Facoltà è viva
Caro Direttore, desidero intervenire, a titolo personale, sulla questione che ha impegnato le pagine del Corriere in questi giorni, relativa al corso di Giurisprudenza dell’Ateneo patavino.
A Giurisprudenza mi sono laureato in corso e, dopo un tratto di carriera svolto in altre sedi, vi ho fatto infine ritorno, ormai da diversi anni. Conoscendola dunque bene, devo dire di non essermi ritrovato, o completamente ritrovato, nell’immagine della Facoltà (come una volta si chiamava) rimandata da quanto pubblicato sul Corriere. Vorrei spiegarmi partendo da un episodio successo tempo fa, in un altro ateneo dove mi è capitato di insegnare. C’era lì un collega che, riferendo dei risultati dei propri esami, si compiaceva del fatto che su 115 studenti frequentanti ne fossero passati 113 già al primo appello. Il che avrebbe dovuto dare l’idea, secondo lui, della qualità della docenza erogata in quel corso. Ora, se questo fosse il metro con cui deve giudicarsi un professore, è chiaro che l’essere «bravo» diventerebbe un risultato comodamente alla portata di tutti.
Non intendo dire che non sia giustificata l’esigenza, riflessa nei criteri ministeriali con cui si valutano i corsi di laurea, che gli abbandoni siano contenuti e che la progressione negli studi possa svolgersi, mediamente, con continuità. Occorre peraltro ricercare un giusto punto di equilibrio, coniugando questi obiettivi con lo scopo centrale degli insegnamenti universitari, che è pur sempre quello di formare (e non già solo di informare) gli studenti.
È vero che eccessi possono esservene stati e che la proverbiale severità patavina è un «marchio di fabbrica» ormai da superare. Bisognerebbe riconoscere però il valore alto che sta nella rinuncia a seguire le vie facili: quelle che consentono un sicuro incremento del numero delle immatricolazioni, ma a scapito degli studenti, i quali in un mondo che richiede competenze sempre più evolute abbisognano, ancor più oggi, di percorsi universitari in grado di stimolare una crescita solida, soprattutto sotto il profilo dell’acquisizione di adeguate capacità critiche.
Del resto, come commissario agli esami di abilitazione per l’esercizio dell’attività forense, mi è stato facile constatare che i laureati dell’Ateneo patavino mostrano una preparazione e consapevolezza evidenti, anche rispetto ai laureati provenienti da altre sedi. E se ne ha continua conferma nell’apprezzamento dei grandi studi milanesi per chi esce da Padova.
Non voglio dire che problemi non ve ne siano. Sono forse mancati, in questi anni, una progettualità ad ampio respiro, una programmazione rigorosa e un più deciso impegno verso l’ammodernamento della Facoltà, con una revisione approfondita dell’offerta formativa per renderla agganciata ai tempi e con l’adozione di metodologie valutative più aggiornate. Nondimeno, molto è stato fatto anche in quest’ultimo periodo. Mi riferisco alla nuova sistemazione degli studi a Treviso, che è tutt’altro che il ricettacolo di una docenza di scarsa qualità, come pure è stato detto. Mi riferisco alle iniziative per l’internazionalizzazione e in particolare al percorso di laurea con Paris II. Anche gli studenti sono impegnati in questo campo, come dimostra la sezione locale di Elsa
(European law students’ association), che a Padova è molto attiva.
La Facoltà dunque vive, e certamente saprà superare questo momento di asimmetria rispetto agli indicatori nazionali. Il resto è polemica inutile. * Ordinario di Diritto Civile Università di Padova