IL FATTORE PASSIONE
Alle elezioni del 1948 la posta in gioco era molto alta – o di qui o di là, la Russia o l’America, due mondi ideologici opposti a confronto: e le passioni furono all’altezza della sfida. Poi furono gli anni del Centrosinistra ad attivare passioni diverse, mentre il paese viveva il suo boom economico, e si passava dall’oscar della lira all’entusiasmo – o al timore di altri – per le nazionalizzazioni.
Poi venne il Sessantotto, vennero l’autunno caldo e gli anni della contestazione, con le forze extraparlamentari che si presentavano per la prima volta alle elezioni sognando la rivoluzione. E in campo grandi leader, da Almirante a Berlinguer, che trascinavano il consenso in opposte direzioni.
A seguire, gli anni dello sperato - da alcuni, e temutissimo da altri sorpasso del Partito comunista, e gli inviti di Indro Montanelli a turarsi il naso e votare Democrazia Cristiana (magari turandosi il naso) per fare argine, seguiti dall’elettorato, che si divise con passione e apprensione tra le due scelte opposte.
Ancora, dopo la vicenda di Mani Pulite, fu la discesa in campo di Berlusconi a dividere passionalmente il paese, tra entusiasti e indignati, e a segnare, nel bene e nel male, un’epoca politica, il berlusconismo, appunto, condita del suo contraltare, l’antiberlusconismo – segno, anche questo, di passione politica.
La nascita dell’Ulivo e la stagione prodiana fu un altro momento di alta partecipazione e capacità di trascinare.
Ultimo è stato Renzi, per una stagione assai più breve e con una parabola incredibilmente rapida, sia nella velocità della salita che in quella della discesa, a catalizzare prima entusiasmi trasversali e travolgenti, e poi altrettanto trasversali repulsioni, perfino interne al suo partito.
Questo rapido excursus, che non si pretende esaustivo, ci permette tuttavia di notare che, laddove le elezioni erano o apparivano più decisive per la vita del Paese, e la posta in gioco era alta, la passione mobilitava le coscienze e attivava prese di posizione forti, dei giornali, delle professioni organizzate, dei corpi intermedi, dell’associazionismo, dei singoli elettori, dividendo le famiglie al loro interno. Mentre molti altri appuntamenti elettorali si sono trascinati stancamente, perché poco c’era da decidere, ed era arduo appassionarsi per quello zero virgola per cento di voti che passava da questo a quel partito di centro (utile giusto a spartirsi qualche sottosegretario), o a sinistra tra comunisti e socialisti.
Il paradosso di queste elezioni, e di questo momento storico, è che gli scenari sarebbero diversissimi, se uno dei tre schieramenti potesse vincere con sufficiente nettezza: portando il paese in direzioni praticamente opposte e gravide di conseguenze (auspicabili o nefaste secondo i punti di vista) – una situazione ideale per favorire le polarizzazioni e le passionalità. E invece niente: non accade nulla.
Ci avviciniamo a elezioni che potrebbero, a seconda del risultato, portare il paese verso l’una o l’altra rovina, o un qualche possibile ma lento recupero, in una situazione sorprendente. Da un lato leader e partiti che si lanciano in mirabolanti promesse in cui nemmeno loro credono (inattuabili, ma che se attuate sarebbero una catastrofe), o si esibiscono con nessuna convinzione in grotteschi giuramenti su testi sacri strumentalizzati e vilipesi, o ancora si accontentano di chiedere un po’ di tempo e fiducia per andare avanti nel cammino intrapreso: ma senza un orizzonte alto e convincente, che offra al Paese uno scenario trascinante, per il quale valga la pena spendersi davvero, da qua a cinque o dieci anni. E dall’altro una pubblica opinione atarassica o in preda a passioni più meschine che alte, incapace di alzare lo sguardo (il solo sentimento esprimibile sembra essere la rabbia, e la rabbia non è mai costruttiva), che segue con sconcerto una commedia cui non partecipa e che pare senza scopo.
Le ragioni sono molte. Il sentimento che le cose andranno comunque male, chiunque le guidi, e allora buttiamoci a caso, più per disperazione che per convinzione. O a contrario l’idea che tanto non cambierà nulla, che alcuni si metteranno d’accordo per una grande coalizione che coinvolga tutti, e quindi votare non cambia un granché. Da qui il fatto che le passioni si manifestano quasi più all’interno degli schieramenti che non tra essi: tra Liberi e Uguali e il PD, tra Lega e Forza Italia per determinare chi avrà la leadership nel centrodestra – perché questo, dopo tutto, potrà fare la differenza tra il salto nel buio, quale che sia, e l’accordo tra diversi che cambi il meno possibile ma non ci porti troppo lontano. Scenari diversamente inquietanti, a cui è arduo richiedere passione.