QUEI TRE RECORD DI UN ‘48 ALLE URNE
Partiamo da un record. Civico ed emotivo, ragione e furore, stabilità e inquietudine. A volte mescolati. Ma da chiamata alle armi. Come un nuovo quarantotto (1948). Di qua o di là. Di qua: rabbia, disagio, rivendicazione, radicalizzazione, migranti, paure, antiestablishment. Trasversale nel mettere insieme l’insofferenza di una classe media proletarizzata, quella delle «vittime della globalizzazione» e perfino quella di un profilo benestante che pur bene stando lamenta sempre un tasso di insoddisfazione. Di là: il «sistema» o suppergiù. Con qualche riserva ma schierato. Che guarda all’euro e all’Europa, ai conti pubblici da sanare e alla crescita, al Pil e alle riforme, quelle fatte e quelle da fare. Magari con una parte delle stesse paure ma «istituzionalizzate». Il record parla con una percentuale chiara: 78,66 per cento. Il record italiano di affluenza alle urne di un Veneto che ha battuto tutti in una tendenza nazionale che ha messo a tacere chi oracolava di latitanza alle urne. Nel 2013 il Veneto raggiunse l’81 per cento, ma si votava anche il lunedì. Imprevedibile.
Altro record: la Lega. Mai vista così. Dal 1982 - quando due carneadi «lighisti» entrarono in Parlamento come marziani alle impennate degli anni Novanta fino agli scandali dei diamanti truffaldini per arrivare al diamante vero di questo 4 marzo 2018. Primo partito, oltre il 30 per cento in Camera e Senato, tre volte tanto Forza Italia. Battuta largamente anche nella Lombardia del vincitore Salvini: «solo» il doppio del partito di Berlusconi, il vero sconfitto di queste elezioni, cedente voti e scettro e soprattutto il progetto di un governo non «sovranista» a guida Tajani. Per dire, sempre in Veneto, il non pervenuto Pd ha perso un punto, Forza Italia dieci. Lega implacabile come al solito sulla dorsale pedemontana e nelle «campagne» ma ora perfino in città, solitamente zoccolo duro del centrosinistra e degli azzurri.
Anche qui parlano i dati: Lega primo partito a Vicenza, Treviso, Verona e Rovigo. In quattro dei sette capoluoghi veneti. Non era mai successo. Al punto che ora qualcuno parla di trumpizzazione dei centri storici. E c’è dell’altro. La Lega ha «placcato» anche la forza dell’onda grillina. I pentastellati, rispetto al 2013, hanno perso due punti e mezzo, 80 mila voti. Transitati, guardando i flussi, proprio nelle mani di Salvini. Insomma, cappotto e controcappotto. Nel quale ha probabilmente giocato una coda del fenomeno referendario: il sapore di quei due milioni e 300 mila voti per l’autonomia (per quanto trasversali) si è riverberato nell’urna di domenica come fosse un ulteriore mandato ad andare fino in fondo. Anche se «in fondo» Zaia e il Veneto, nell’ipotesi di una leadership governativa a trazione leghista, sulla loro strada rischiano di trovare proprio il «nazionalista» Salvini, che per dare più poteri e soldi al Veneto dovrebbe costringere alla cura dimagrante guardacaso il Sud, dove il progetto sovranista del Matteo (ex) padano si sta espandendo (7 per cento a Reggio Calabria). E questo al di là di un «premio» in termini di rappresentanza a Roma già reclamato dai colonnelli della regione leghistissima.
Il terzo record, a proposito di M5S e Lega, sta nella suggestione della somma dei loro voti: insieme gli antiestablishment (anche se la Lega è certo più «sistemica» del popolo del vaffa) in Veneto valgono il 55 per cento, cinque punti in più che a livello nazionale. La suggestione di questa ipotetica alleanza-maggioranza in un Paese in pieno stallo sta riempiendo il dibattito politico post voto, e sebbene un simile accrocchio sia stato (finora) smentito sia da Salvini che da Di Maio, aiuta se non altro molto a capire il voto di domenica. La somma dei due partiti-movimenti rende bene l’idea di quanto siano cambiati i parametri politici di quella che il «Che» Di Battista ha già chiamato nella libido del trionfo «la vera Terza Repubblica». Una «Terza Repubblica» dove la maggioranza elettorale, se non parlamentare, è ascrivibile a una visione generale che confligge con l’impianto politico-economico di tutti gli ultimi governi di centrodestra e centrosinistra (pur tra mille sfumature ). In cosa sono assimilabili Lega e Cinque Stelle? Oltre che la comunanza su vaccini e Legge Fornero, e a parte il fatto di non dirsi né di destra né di sinistra ma per certi aspetti contenendo «radicalmente» entrambe, è evidente il loro tratto anti-euro e anti-europeista, la loro allergia al mondo della media-grande industria a vantaggio dei «piccoli» e delle partite Iva, la diffidenza nei confronti delle rappresentanze intermedie della società siano essere appartenenti al mondo associativo produttivo che a quello sindacale. Molto netta su sicurezza e migranti la Lega, più sfumata e ondivaga la posizione dei Cinque Stelle, anche se su questo fronte sia Grillo che Di Maio hanno usato parole più vicine all’accetta che alla carezza.
Ma qui si fermano le assonanze. Perché tra i due schieramenti c’è un evidente cortocircuito territoriale. Che parla di due Italie. La Lega parla il linguaggio nordista dei costi standard, delle garze che non possono costare un tot a Valdagno e tre volte tanto a Caltanissetta, aborre l’assistenzialismo e fa della virtuosità il suo cavallo di battaglia nel raddrizzamento delle sperequazioni regionali, invoca il reintegro almeno parziale del residuo fiscale miliardario del Nord «che permette al Sud di scialacquare». I Cinque Stelle della «decrescita felice», da parte loro, hanno fatto cappotto in un Meridione che ad ogni test elettorale spiana la mano a chi può offrire di più. Con una visione, è l’accusa, assistenzialistica, dove il passepartout è la promessa del reddito di cittadinanza e dove viene offerto «più Stato». Insomma, due visioni del mondo «uguali e contrarie» riunite nell’urna, entrambe anti-establishment ma per certi aspetti lontane anni luce.
Detto questo, se non nel Paese, una maggioranza «politica» il centrodestra almeno in Veneto - dove Zaia governa senza patemi - ce l’ha. Prendendo ancora per buona la coalizione che va da Salvini a Berlusconi , dalla alla Meloni alla «quarta gamba» (Noi con l’Italia-Udc), domenica si è presa il 49 per cento dei consensi. Un centrodestra sempre vincente in questa terra e al quale storicamente guardano le forze produttive. Per quanto, oggi, queste si dicano preoccupate per la stabilità del Paese e per la spinta anti-europea uscita dall’urna. In testa, Confartigianato, l’associazione che rappresenta molti piccoli e molte partite Iva. Proprio un pezzo del popolo della Lega. Resta da capire ora cosa accadrà a Roma. Renato Brunetta, ministro in pectore della coalizione (lo è ancora?) alla domanda se il centrodestra troverà i numeri per governare ha assicurato che c’è già la fila. Alludendo al «reclutamento» di tutti coloro che pur di non perdere l’appannaggio parlamentare confluiranno nell’auspicata maggioranza come «quinta» gamba. In un Paese dove tutti tengono famiglia siamo molto tentati di credergli.