L’architettura secondo Philippe Daverio
Il critico d’arte, in un affollatissimo Teatro Filarmonico per il terzo appuntamento della rassegna Idem, è partito con un filmato sulle demolizioni moderniste. Un viaggio dalle torri medioevali ai ponti... fino ai grattacieli
Quasi un fondatore dell’associazione Idem. Così è stato presentato ieri sera, per il terzo appuntamento della rassegna, in un affollatissimo teatro Filarmonico, Philippe Daverio, il suo più affezionato ospite. «Allacciatevi le cinture di sicurezza», avverte Daverio, introducendo un breve filmato, «un esperimento fatto sulla vostra pelle», un montaggio che mette in sequenza una serie di demolizioni di architetture moderniste. Lo storico dell’arte più amato dalle folle ha aperto così, con la sua abituale ironia, l’incontro dedicato all’architettura del ‘900. Fin da subito Daverio si dichiara: «Io ce l’ho su con Loos». Essendo Loos quell’Adolf («non quello con i baffetti») considerato tra i padri dell’architettura moderna, che nel suo saggio del 1908 scriveva: «la decorazione è un crimine. L’assenza di ornamento ha fatto raggiungere alle altre arti altezze impensabili, l’assenza di ornamento è una prova di forza spirituale». Dal concetto di classico che prende origine da un termine riferito alla marina militare romana, all’imperialismo americano, che affida la sua immagine all’architettura neoclassica, il veloce narrare di Daverio passa attraverso Palladio e a uno dei suoi capolavori: la vicentina villa detta la «Rotonda». In assenza di Salvini che difenda il territorio veneziano dagli invasori stranieri – ironizza Daverio –, i veneziani si ritirano in terra ferma: «da qui nasce il termine di terron», scherza, così come da tutti gli incroci di culture che passano nel nostro Paese nasce la nostra incredibile cultura. Dai normanni con la cattedrale di Cefalù, frutto della loro fissazione per la simmetria, ai romani con il loro senso (del tutto approssimativo, «a naso,
il romano è oggi come allora») della prospettiva che inventano una cosa che ai greci non sarebbe mai venuta in mente, ovvero l’arco, fino alla scoperta del giardino arabo, e alla Cuba di Palermo che per visitarla bisogna «andare a rompere le scatole dai carabinieri», che poi viene copiata in Notre Dame.
L’architettura secondo Daverio è una passeggiata meravigliosa piena di rimbalzi e richiami, non solo tra edifici lontani nel tempo e nello spazio, ma anche, come sua abitudine, tra l’origine del linguaggio e nelle diverse espressioni dell’uomo. Così Daverio fa saltare il suo pubblico dalla città gotica e la New York d’inizio ‘900, tra le torri medievali unite, in caso di amicizia, da ponti, e i grattacieli americani. Quello che si viene scoprendo è che l’architettura con le sue forme cambia la visione del mondo e che Oriente e Occidente si sposano nell’arco romano, ma con la rivoluzione della chiave di volta, alleggerendo le pareti, sempre più, fino alla leggerezza del Crystal Palace di Londra del 1850. Con la Tour Eiffel nel 1887 nasce la nuova architettura, priva di razionalità, che non è più citazione di opere del passato. Perché la pretesa di razionalità dell’architettura del ‘900, alla fine, grazie all’ironia di Daverio e al suo sguardo scanzonato, si rivela poi non tanto razionale, persino in quel mostro sacro di Le Corbusier. Prova ne sia Frank Gehry con le sue imprevedibili invenzioni. E nelle differenze antropologiche con gli americani, che fanno saltare le loro architetture, si scopre che «la gran parte dell’infelicità degli italiani sta proprio la mancanza dell’architettura».